venerdì 3 gennaio 2014
Il rifiuto
A un certo momento, davanti agli avvenimenti pubblici, sappiamo di dover rifiutare. Il rifiuto è assoluto, categorico. Non discute, non fa intendere le sue ragioni. E' silenzioso e solitario, anche quando si afferma, come deve, alla luce del sole. Gli uomini che rifiutano e che sono legati dalla forza del rifiuto, sanno di non essere ancora insieme. Il tempo dell'affermazione comune è stato loro per l'appunto portato via. Resta loro l'irriducibile rifiuto, l'amicizia di questo No certo, incrollabile, rigoroso, che li tiene uniti. Il movimento del rifiutare è raro e difficile, sebbene sia uguale e il medesimo in ciascuno di noi, dacché ce ne siamo impadroniti.
[...] Quello che rifiutiamo non è senza valore, né senza importanza. E' proprio per ciò che il rifiuto è necessario. Esiste una ragione che non accetteremo più, c'è un'apparenza di saggezza che ci fa orrore, c'è un'offerta di accordo e di conciliazione che non ascolteremo. Si è verificata una rottura. Siamo stati restituiti alla franchezza che non tollera più complicità. Quando rifiutiamo, rifiutiamo con un movimento senza disprezzo, senza esaltazione e anonimo, per quanto possibile, perché il potere di rifiutare non si compie a partire da noi stessi, né solo nel nostro nome, ma a partire da un inizio molto dimesso che appartiene innanzitutto a coloro che non possono parlare.
(M. Blanchot)
mercoledì 1 gennaio 2014
Perlustrazione
Nel momento in cui anche l’ultimo
mobile fu portato via rimase solo l’alone
dei quadri sul bianco delle pareti. Perlustrata un’ultima volta la casa si
mostrò nel suo volto vero, livido, come il negativo di una vecchia foto. Ogni
cosa svanendo aveva lasciato solo la propria ombra, un ultimo spasmo di vita
remoto, un odore di grigio, un dolore impresso in un’impronta sul pavimento.
Forse aveva avuto e avrebbe ancora avuto le sembianze di una casa vuota il
mondo senza vita, quando scomparso anche l’ultimo uomo, la ruota dei giorni
avrebbe di nuovo assunto la trasparenza di un ghiaccio perenne, uno stare
immobile, uno scorrere lentissimo di ombre sulla lastra eterna della necessità,
come immagine riflesse nel vetro di questa finestra. Continuò ancora per qualche minuto a perlustrarla stanza dopo
stanza – poi non ci sarebbe mai stato più niente da spostare, da guardare - con
passo lento e circospetto, sollevando e riappoggiando i piedi sul pavimento con
estrema cautela, quasi a non voler lasciare nessuna impronta. Bisognava lasciar
incontaminato il luogo del crimine, il crimine di quella che era stata la sua
vita. Ora lui non poteva più incidere sugli eventi, poteva solo osservare con
il distacco di un perito o con lo sguardo allucinato di un testimone oculare. Ora
quella che era stata da sempre la sua casa non aspettava più nessuno, niente, se
non l’aria che gonfia l’intonaco del soffitto, un bolla di spazio
immobile, il pulviscolo che rotea pianissimo,
il mondo muto risucchiato nella crepa di un battiscopa.
2000 e qualcosa
Essere seduto lì, perfetto, in
poltrona, senza più niente, neanche quel chiodo mistico conficcato nella tempia
che altri chiamano mal di testa, in un
coma alimentare, concentrato come un Buddha napoletano intorno alla propria pancia, punto archimedeo del nulla che sto diventando, via digestiva all’assoluto.
Il sottofondo della tv - il discorso del presidente, il circo gli acrobati, Alberto e Stephanie di monaco,
i clown, gli elefanti a festa, la nostra
vita - il vociare sempre più remoto dei parenti - generazioni accatastate in pochi metri quadri - e sapere finalmente che non c’è
altro, mai, neanche un baluginio di luci oltre la finestra e l’incalzare dei botti di fine
anno. Ma ora importa solo quest’istante di perfetta padronanza di sé pur
non padroneggiando niente, se non, un attimo prima, l’ultimo schiaccianoci
rimasto, un lasciarsi andare lentissimo
nell’odore di fritto delle madri, aggrapparsi per un istante alla legge di un
padre che si nasconde dietro un enigma di baffi fuori moda. Essere trasparente
a se stesso nel torpore che avanza dallo stomaco - in un bruciore di fondo che
nessun Maalox potrà sconfiggere - e risale come una lentissima marea fino a
inondare il cervello. Anche questo finire non ha più nessun valore, rimanere
per sempre riflesso sulla superficie lucida della guantiera dei dolci, nessun
prima nessun dopo solo un’origine che prende forma in uno sbuffo d’aria mal
camuffato, in una palpebra che cala sempre più come un piombo a coprire la
vista. Forse ritornare è solo questo digerire quel che non siamo stati, nient’altro, senza paura senza più
angoscia, ma una somma e una sottrazione che si azzerano. Buona fine, buon inizio. Un inizio e una fine
che coincidono, finalmente, in un ultimo rigurgito esofageo. Perfetto.
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