Non è facile recensire
un’antologia perché è più difficoltoso coglierne l’idea centrale, la trama
profonda del testo, ciò che ne lega in un unico discorso, se c’è, le parti. E’
questo pensiero che mi ha colto leggendo l’Undicesimo
quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2012, a cura di Franco Buffoni) e, ovviamente,
questo filo non può essere solo in un fattore generazionale, essendo i sette
poeti antologizzati, tutti nati tra gli anni Settanta e la prima metà degli
Ottanta, ma deve trovarsi in qualcosa di più profondo. Inoltre le difficoltà
sono accentuate dalla presenza, oltre che di una prefazione generale del
curatore Franco Buffoni, per ogni
autore, di un saggio critico introduttivo ( i curatori dei singoli interventi
sono: Giancarlo Alfano, Rosaria Lo Russo, Paolo Morelli, Umberto Motta, Fabio
Pusterla, Carlo Vasio, Fabio Zinelli), che, se da un lato dà completezza ai
sette libri antologizzati nel quaderno e dà una traccia di lettura dei testi,
dall’altro può determinare una stimmate di irrevocabilità all’interpretazione
degli autori antologizzati. In questa antologia, però, queste possibili
perplessità vengono subito fugate dall'alto livello dei poeti antologizzati e
dei contributi critici, oltre che dal dialogo serrato che nasce dalla stessa organizzazione testuale.
Una possibile linea
interpretativa la offre lo stesso Franco
Buffoni nella sua presentazione, quando parla di “condizione” come tratto
comune dei diversi “libri” antologizzati nel volume. Anche a me sembra che questo sia un terreno che
accomuna tutti gli autori e che spesso è presente al di là delle diversa presa
di coscienza degli stessi. E procedendo dalla “condizione” potremmo dire che questa
consiste nell’intuizione che l’esistenza dell’uomo e del poeta e delle cose tutte
sia un incessante “movimento”, anzi potremmo dire che tale condizione è la
dimensione trascendentale dell’esistenza e della nostra epoca. La poesia,
quindi, deve cercare di dire questa verità nella sua intima essenza, mettendosi
in gioco essa stessa e cercando nuove vie espressive per andare oltre la
banalizzazione che di essa fa la vita quotidiana, o meglio andando oltre, ma
cercando di dar ragione anche di tale condizione deiettiva. Se questo filo
conduttore o, meglio, questa ipotesi interpretativa ha una sua validità,
potremmo riscontrarla nel primo degli autori antologizzati, Yari Bernasconi, nei cui testi la vita si
mostra nella sua durezza implacabile e senza possibilità di redenzione. In
questi versi il movimento assume il suo aspetto essenziale di corruzione
inevitabile di ogni cosa, determinata dal tempo che travolge ogni cosa o che
lentamente ma inesorabilmente la consuma anche per l’azione devastatrice della
natura, come per il vulcano Merapi protagonista di una delle sezioni qui antologizzate;
anzi sembrerebbe che ogni evento nasca per mostrare la sua ineluttabile
corruttibilità e a questa condizione non può esserci rimedio, ma solo una
constatazione senza speranza, senza neanche la speranza di un impossibile
perdono: Non è vero che saremo perdonati,
in questo la citazione di Fortini rende definitivo e lapidario lo sguardo
del poeta, l’unico evento che, forse, per un attimo può far cessare, o per lo
meno, sospendere, il procedere ininterrotto di ogni cosa nel nulla (Sassi, dietro il cancello e la catena.
Dietro le ruggini/ della barriera. Una guida racconta del miracolo/ finito in
niente: sabbia e polvere. Racconta/ le persecuzioni e le guerre. La cattedrale/
delle cattedrali, era: ora è ridicola. Uno scherzo/per i pochi turisti.// Sulla
facciata è rimasta una testa sola:/ la prostituta accovacciata sotto i piedi di
chi cammina,/ tra gli sputi e lo sporco. Volti vuoti, gli altri, spazzati con
pochi colpi di martello.// lei no. Lei ha ancora/ due occhi per guardarsi
attorno. Senza vergogna,/ questa volta: nessuno a scrutarla dall’alto./ più
nessuno a deciderle un perdono, un sorriso.).
Invece l’abitare, che è il titolo
ed il cuore dei testi di Azzurra
D’Agostino, è il modo attraverso cui lo sguardo e la parola poetica
preservano la condizione di transitorietà di ogni cosa, il luogo in cui le cose
si danno è il primo custodirsi di ogni evento. Il movimento è qui una
ricognizione emotiva dei luoghi e anche un appello agli uomini che vi abitano a
interagire con essi, a passarvi in modo più lieve. Il passaggio è la condizione
dell’abitare ed esso deve cogliere l’aspetto impercettibile e invisibile della
natura, l’alone misterioso che la preserva per ciò che è. In questo la poesia
della D’Agostino ha una dimensione
profondamente ecologica, nel senso etimologico del termine; è la parola poetica
che può ridare un senso, una casa, all’abitare, mostrandone l’andamento, il passare
e il trattenersi nella custodia della natura, per poi svanire, se non raccolta
dalla memoria dei luoghi e di chi vi abita (I
verbi dei sassi e del legno/ coprono la distanza. Così/ è l’invisibile
inverno,/ capelli che sanno di neve./ L’aperto del cielo prepara/ gli uomini. E
gli insetti/ hanno un cuore noi/ come faremo, che non conosciamo/ nessun
silenzio, nessuna voce che chiama, noi che nessun volto/ abbiamo adatto a
restringere la pena?).
In Fabio Donalisio potremmo dire che l’approccio alla scrittura
poetica è dato da un continuo depistare, dal disseminare tracce, per
un’impossibile pratica del ritorno, per
poi nascondersi d’improvviso in uno smorzarsi della parola, che si fa, a volte
ironica o parodica, altre volte invece sorprende il lettore, quasi in un
agguato linguistico, in improvvise accensioni che subito svaniscono. Insomma qui
viene riproposto uno stilema di molta poesia e letteratura contemporanea e non
solo, quella del larvatus prodeo, del procedo nascosto, in cui si disseminano
tracce e versioni diverse dello stesso evento e che a ben guardare nasconde una
forma raffinatissima, coltivata sino alle sue estreme conseguenze, di
narcisismo poetico (scardini la memoria
istituzionale/ fornisci ricordi incastrati, una volta,/ senza far male/ ogni
complessità del reale (abituale)/ si fa sudore/ e anche se non so (mai saputo)/
te lo scopo nel cuore,/ l’amore// (e chiedo aiuto) ).
Invece nella poesia di Vincenzo Frungillo -sicuramente degli
autori antologizzati tra i più compiuti poeticamente, dove l’estrema
consapevolezza teoricopoietica si coniuga con una forza immaginativa fuori dal
comune - i testi poematici (La fine di
Lucrezio, Iter stultorum e La parte mancante) qui raccolti, colgono la
condizione umana nella suo requisito profondo di oscillazione tra violenza
della storia e tenerezza costitutiva delle creature. Questa oscillazione è il
motore segreto, il sistema di leve, che
muove la storia e fa sì che l’uomo propriamente non sia, non è, perché la sua
essenza non è data una volta è per sempre ma è essa stessa diveniente,
proveniente da un’origine remota e irraggiungibile e rivolta a un domani, un
futuro, un oltre, esso stesso al di là di qualsiasi orizzonte, al di là di
qualsiasi terra promessa e che può essere intravisto solo nell’attimo prima del
naufragio definitivo. Qui il moto è un moto di dispersione tragica, perché non
voluta, che è l’intima essenza, l’unica testimonianza, della storia umana (Siamo annegati vicino Lampedusa,/ altri sono
dispersi al largo della Puglia,/ siamo una falla della Storia,/ solo questo ci
accomuna.// Eravamo acqua, terra, fuoco,/ poi ha parlato per noi il vuoto,/ ci
ha spinti tra le onde,/ a spiare le coste,// Tentare la via del mare,/ e
naufragare, naufragare./ La terra non ci ha accolto,// nessuno ci ha sepolto,/
offriamo a te il nostro,/ la nostra fine sarà il vostro inizio.).
In Eleonora Pinzuti - altra voce con Frungillo e Simonelli già pienamente strutturata - il movimento è un’andare
indietro nel tempo della memoria e la parola poetica assume l’andamento di una
ricerca di quelle tracce mnestiche che riannodano i fili del presente con un
passato perduto, ma che può essere proustianamente salvato, attraverso un
viaggio ctonio nella memoria e grazie al confronto con la figura, centrale in
questi versi, della nonna dell’autrice, che sembra quasi quella di un Virgilio
dantesco al femminile, che prendendo per mano la nipote poetessa la conduce in
un viaggio alla ricerca del senso profondo della propria esistenza, portandola
a riattraversare i momenti decisivi e i dettagli indelebili del proprio
passato. La lingua poetica è essa stessa il luogo di questo attraversamento del
passato, non è un semplice mezzo ma la dimensione in cui si mostra, brilla,
l’irrevocabile luce di ciò che è stato, che ridona senso a ciò che ora è (Lentamente/ mi leggo dentro un alfabeto
diverso./ I segni si annodano,/ diventano punti,/ anche se ancora preme al
centro del collo/ l’aguzzo senso di niente./ Mi libro, mi scollo// E torna a
mente, dopo tanto tempo,/ il tratto di compendio:/ la possibilità di veder
esauditi/ i desideri, le trame/ semplicemente/ volendo.).
In Marco Simonelli il movimento si manifesta come un pendolarismo
dell’anima tra una città (Firenze), luogo insieme rivelatore, di cui è intriso
l’immaginario, ma anche dimensione cupa dove il desiderio assume aspetti
inquieti, e l’altrove, non troppo lontano, il mare, collegato alla città da una
bretella autostradale, che però è il simbolo di un altrove ben più radicale,
quello della memoria e della ricerca di un’identità in quel che si è stati.
Questo altrove spazio-temporale si riverbera sul presente e rende la materia
poetica incandescente, una “fusione a
caldo”, per dirla con Buffoni, tra la memoria e la commedia umana osservata da Simonelli, che, però, viene
sapientemente raffreddata dall’andamento piano, apparentemente discorsivo e
conciliate, del dettato poetico, senza rinunciare ad una rielaborazione
originale della tradizione. Questo procedimento letterario, che spesso è stato
definito pop (anche se su questa definizione, che spesso identifica anche la
poesia di Donalisio e di altri
autori qui non antologizzati, ci sarebbe da discutere, perché nasce in ambiti
artistici diversi e per essere inserita congruamente in poesia avrebbe bisogno
di una giustificazione teorica seria), comunque, permette al lettore di giungere
al cuore del versi con un tocco lieve e inavvertito, quasi evanescente (La tua professoressa t’incrinava il destino
con i tre./ Io e te eravamo gli scemi del villaggio./ Nel paesaggio due semi
intestarditi insieme impollinati/ e l’unico sbocciare fu solo nei capelli
colorati,/ fu solamente nelle pelli bianche; in due su un motorino/ o a
giardino dove fumavamo, facendo sega a scuola.// Adesso vola solamente il
ricordare, per te che stai col Corvo,/ le fasce stile Brandon Lee del non
sopravvissuto, stormi d’uccelli neri,/ che ieri c’era da mandare a mente quel
brano dei Sepolcri che non so./ Ma oggi no: ti porto in lutto dark, con
thanatos e con eros,/metamorfosi d’Ovidio, compagno adolescente./ In modo differente
ci trasformammo in niente).
Anche nell’ultima poetessa
antologizzata, Mariagiorgia Ulbar,
questi aspetti sono presenti, ma con un tono più ossessivo e percussivo nel
dettato poetico e si dilatano in una sorta di nomadismo geografico, oltre che
psichico. Quasi un battere il tempo di marcia fino al successivo luogo, sempre
transitorio, dove giungere e che rimanda sempre a un altro che potrebbe
sopraggiungere, a sua volta, per rivelare qualcosa di nuovo o meglio una nuova
forma di ciò che si ricerca ossessivamente; o che, invece, in maniera ben più
inquietante, quasi rovesciando il viaggio in una fuga inconsapevole, ci cerca e
ci assale all’improvviso (Un giorno venne
la paura/ a visitarmi in un tempo in cui io mai/ l’avrei attesa ed ero
concentrata/ su biancheria lavata, accatastata/ in una valigia nera per partire.).
Potremmo, infine, dire che
l’aspetto che soggiace a molti di questi testi, col quale tutti gli autori in
maniera più o meno consapevole si confrontano, è l’esistenza e il divenire come
qualcosa di radicalmente transitorio e inafferrabile. Insomma il tutto, se c’è,
che è al fondo della nostra esistenza, si mostra, se lo fa, in un barlume di
luce, nel riflesso schermato dalla parola poetica, in un sovrappensiero o
nell’ultimo respiro prima che la parola e chi la pronuncia naufraghi, svanisca,
per sempre.
Francesco Filia
Versioni più brevi e leggermente diverse tra loro del presente articolo sono apparse sul numero 280 di Poesia (Crocetti editore) e sul numero 273 de L'immaginazione (Manni editore).