lunedì 14 ottobre 2013

Respirare il limite. Note su Futuro semplice di Gianni Montieri


Imparassimo almeno dalle foglie/ cadere nella stagione giusta/ mantenendo un tono di decoro/ la scelta del colore.  Leggere la poesia di Gianni Montieri significa entrare in una dimensione di limpidezza cristallina, in un esercizio di pulizia e purezza. Di Montieri è propria l’attenzione, mai manieristica, per il dettaglio del dettato; ogni parola in questi versi vive di una propria necessità insostituibile, che scaturisce dalla percezione precisa, chirurgica, del flusso di vita che scorre dinanzi allo sguardo del poeta. Un’attenzione che sintetizza la vertiginosità del dettato poetico con la profonda capacità descrittiva del vero narratore. Non è un caso che una delle poesie del libro sia dedicata a Raymond Carver, quasi alter ego del poeta.
Il tratto comune di molti testi di Futuro semplice (LietoColle, 2010) sta nella capacità di dire un sentimento, di mostrarlo nella sua originaria verità, senza nominarlo, ma attraverso la condensazione nei gesti, negli oggetti; e più che a un uso, che pure è presente, del correlativo oggettivo, questo procedere mi dà la sensazione di un approccio fenomenologico: mostrare gli eventi nel loro originario manifestarsi. Il mondo viene colto nel suo darsi prima di qualsiasi  distinzione tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità e quindi, stilisticamente, tra lirica e realismo. In questi versi le cose ci accadono nella loro evidenza primigenia - e quindi nella loro semplice apertura alla vita, al futuro - nella loro immensa gratuità e sono colte prima che si possano interpretare, giudicare, prima che il vivere ci costringa a scegliere a perpetuare quell’errore che l’esistere è. Tutto ci accedeva insieme ripete Montieri in più testi mostrando un’attenzione che, al tempo stesso, è un ricordo mitico e un percepire originario (l’occhio non distingueva/ l’inevitabile dallo straordinario/ conteneva nella stessa iride/ il contrabbando e San Martino/ il parcheggio abusivo e via Orazio) e che diventa un vero e proprio atto d’amore per la vita, nelle sue contraddizioni irrisolte (si veda il bellissimo frammento XXVI dell’inedito (Sud) in caso di morte).
I testi di questo libro e gli inediti a cui ho avuto accesso hanno sempre qualche cosa, uno scarto direi, minimo, inavvertito, che sorprende, uno scatto che lascia a bocca aperta, ed è quello scarto tra il percepire irriflesso, ordinario e lo sguardo poetico, che, invece, disvela l’intima essenza di un evento, di un attimo, del vivere. La capacità di Montieri è di restituire quello spazio, quella sospensione, in cui le cose hanno lo smalto originario della creazione, per dirla con Pasternak, e come nota Mary Barbara Tolusso nell’introduzione, e questo è un tratto comune con altri poeti della sua generazione, penso a Italo Testa e alla sua La divisione della gioia. In Montieri, però, la sospensione è data, oltre che dall’attenzione del guardare che è sempre insieme un “sentire”, anche dalla condizione di non-luogo biografico (nato al sud e residente a Milano) che diventa non luogo esistenziale e si fa  privilegio di poter vedere le cose da una prospettiva marginale, tangente, coglierle nella loro luce radente, nella loro verità - se è vero ciò che dimora nell’estremo - nel dettaglio, nel margine, al confine tra una cosa e il suo manifestarsi originario.

La poesia di Montieri si mostra così come una via rigorosa nella solitudine, nel colloquio, al tempo stesso terribile e meraviglioso, con il silenzio che avvolge e custodisce ogni cosa. Ma questo colloquio non ha nulla di solipsistico, anzi è una ricerca di un “tu” a cui rivolgersi, che spesso assume le sembianze di un’assenza, di una donna che si è amata o che si ama o altre volte di un interlocutore letterario con cui confrontarsi sul senso del vivere e del dire, come nella già ricordata poesia Absolute beginners dedicata a Carver (Certo questa dei tagli all’epoca/ non devi averla digerita nemmeno un po’/ loro ti dicono: “è il mio lavoro”/ e invece è il tuo// tornando a noi, che dirti?/ Certi giorni l’editor servirebbe a me/ quando non so risolvermi ad uscire/ e nemmeno in giardino so quando potare).  La solitudine è quindi un’attesa, un ordine necessario (La vita in uno ha meno metri/ spazi angusti e un ordine necessario).  La parola poetica è quell’ordine, è un processo di sottrazione è un’economia che richiede di sprofondare nell’essenziale, di regolare il battito del cuore al minimo, di respirare in silenzio, di ascoltare il limite al quale siamo consegnati (…uno spiraglio/nell’attesa indietreggio un metro/ chiudo gli occhi, respiro piano/ è questo il limite) .

Francesco Filia

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