Far incontrare due poeti in unico
libro non è cosa semplice. Spesso capita che le due voci siano incompatibili o
che l’una sovrasti l’altra. Nel libro Il sentimento dei vitelli (a
cura di Alberto Pellegatta, EDB Edizioni, 2012) questo non accade. Le
voci dei due autori - Francesco Maria
Tipaldi e Luca Minola, campano
l’uno bergamasco il secondo - sono, nella loro diversità, complementari. In
quanto l’uno sembra il negativo dell’altro, l’uno opera negli spazi
dell’immaginario lasciati liberi dall’altro e viceversa. Quanto sovraesposto,
presente scenicamente, tra il Barocco e il Rococò, è Tipaldi, così è invece nascosto nelle pieghe dei versi il
linguaggio di Minola, che agisce più
per sottrazione che per aggiunta di elementi.
Leggendo le poesie di Tipaldi il primo riferimento letterario
che mi è venuto in mente è Spaccanapoli del suo conterraneo Domenico Rea
(e da lì su fino al Basile de Lo cunto de li cunti), sia per la studiatissima
brevitas dei testi (utilizzata anche se con intenzione diversa da Minola) e per la lingua sonante,
icastica e nervosa, per le accensioni e gli scatti delle scene, ma anche per
l’immaginario, legato a un mondo basso e terrigno, che risucchia verso di sé ciò che invece
dovrebbe essere alto - Cristo, gli angeli, il sacro. Di questo mondo Tipaldi coglie l’aspetto fantastico,
grottesco (L’uva fragola sarebbe stata
causa di enormi/ terribili diarree/ Lo sapevano Nahum e i profeti tutti.// Le
feci divennero molli/ I ragazzi provarono il sentimento dei vitelli.) e,
dietro questa maschera, la necessaria crudeltà della vita, se è vero che
ritornare alla natura significa rinchiudersi nelle mura della violenza (Cercavo sul fondo della pupilla morta/
quello che non mi è dato/ vedere). Le scene di questi testi nascono, nella
loro sapidità, da un horror vacui, dal sospetto che dietro la multiforme e
fantasmagorica scenografia naturale, dietro i
culoni in primo piano delle contadine,
si nasconda il nulla (-io lo so che
verrete/ madre/ il nulla ci mangia nella mano/ come fosse un cane.). E
quindi la poesia, la vita e la fanciullezza non possono che essere un’attesa
crudele e divertita della morte, dove nelle poche pause concesse ci si può
persino aprire all’amore che non salva e al candore dell’anima (Erano labbra reali/ parole reali nello
stesso posto/ e tu eri bianca come un pane bianco// e ti ho toccata come un
cieco/ ti avrebbe toccata, avevi i capelli bagnati,/ i capelli bagnati/ anima.).
Vivere significa attendere il mammone (la morte, il nulla) che ci porterà via
con sé e a cui potremo solo rispondere con il disincanto e la saggezza della
terra, di quella parte di noi, la più infima forse, che non muore (dicono sia la morte questo senso/ di
spossatezza/ questa stazione zuppa/ di mosche).
Nei testi di Minola, come si è accennato sopra, il procedimento predominante è
quello della sottrazione, ma anche quello di un tentativo estremo di fragile
ricomposizione. I versi sembrano i frantumi rimasti dell’immenso specchio della
rivelazione, di una meraviglia ancestrale, di cui si è persa traccia e di cui
rimangono solo frammenti sparsi, intermittenze,
brevi accenni, visioni rapite e vertigini della memoria (Non ci sono altri oggetti da separare,/ nelle stanze le memorie sono
calendari di luce.). Frantumi che riflettono luci e colori (Dopo si brucia il verde delle foglie) di
una natura ambivalente, da un lato apparentemente accogliente dall’altro
sottilmente inquietante. La luce, come fa notare Pellegatta nella presentazione, è un aspetto centrale
dell’immaginario di Minola, anzi si
potrebbe dire che lo studio di essa è la traccia che conduce il poeta a
corrispondere allo stupore originario che lo muove, è il filo segreto e
invisibile che tiene insiemi le immagini disperse del mondo. E che in ultimo,
dopo una peregrinazione che lo porta ad attraversare la dispersione della vita
con la bussola di una sottile ironia, permette all’anima di purificarsi (Le sostanze sono chiare, piene di
radiazioni,/ portano il filtraggio, lo spurgo/ delle lunghe ore di sonno.),
di scoprirsi nella sua nudità. L’anima non si mostra solo come cercatrice di un
ordine scomparso (I suoi movimenti sono
prigioni di diritto,/ lunghe intermittenze./ Non sbaglia, tocca il morso,/ il
meccanismo dell’ordine.) - indagatrice di un destino, che spesso appare in
sogno e o nelle ore del buio (Negli spazi
si dividono le ore dei nottambuli/ quando la casa è passata dall’abito/ e
lo sguardo si carica di effetti nel
tempo immobile,/ il sonno che riproduce l’abbondanza.) e che si dà tra il
desiderio colmo di dubbi dei mortali (C’è
speranza solo adesso che è tardi/ e i fili sono tutti tirati/ e la lana non si
indossa più.) e il cielo inquieto che li sovrasta (È la mossa dei destini,/ i dubbi
precisi modellano le strade/ e il paesaggio è arrestato.// Osservo battaglie nei cieli,/ misure di contatto,
pressioni dell’aria.) - ma essa stessa si scopre cercata, se non addirittura
desiderata e accolta (Sarei il sogno a te
presente,/ l’azzurro spinto al massimo/ e saprei che l’anima è cercata.).
Francesco Filia