lunedì 3 dicembre 2012

Viola Amarelli su "La neve"


Francesco Filia  ci consegna con “La neve” (FaraEditore , 2012)  un viaggio nei gironi di una Napoli infera e cruda (…a questo gelo di piazze senza nome/ a un orrore di statue erette da millenni), un reportage che ambisce, sottotraccia, alla dimensione allegorica di una condizione umana quale attesa perenne di un riscatto impossibile (In attesa che i conti tornino, moriremo, lo sai).
L’ossimoro sembrerebbe una delle architravi di questo lavoro, sin dal titolo, che rinvia a una inusuale neve partenopea, nel finale vera e propria  “neve nera”, come nella scansione a frammenti  – peraltro nettamente definiti a livello spaziotemporale –   di questo che è e resta un indubitabile poemetto. La figura retorica diventa  strumento di una contraddizione,  avvertita  fenomenologicamente, in un correlato percettivo alienato alla De Angelis, tra una natura metropolitana, leopardianamente matrigna, e una sgomenta innocenza umana.
Il ricorso reiterato alla prima persona plurale testimonia della tensione civile di Filia, destinata peraltro a radicarsi solo nella fragile solidarietà di uno spalla a spalla,  non trovando sbocco per incidere significativamente nel dato endemico di questa/apocalisse quotidiana.
La versificazione prosastica consente all’autore di alternare campi lunghi e zoomate  - omaggio, anche  in esergo, alla lezione di Pavese – ma il calco ritmico  e poematico prescelto resta ancorato a un’elegia secca e calibrata  che in alcuni dei testi raggiunge esiti più che notevoli , dove si fondono istanze disparate (il cielo gremito di stelle vs l’urlo che corre tra i palazzi), le stesse che non permettono di trovar ragione allo iato tra aspettative e realtà.
Napoli funge nella parola di Filia da metafora di una quotidianità insensata, priva di salvezza che non sia il dirla, scontando l’inanità della scrittura e, insieme, la sua cogente necessità .“Se qualcosa rimarrà sarà la parola soffocata”.
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(X frammento, Napoli 23 novembre 1980)
Abbiamo visto il palmo delle mani sporco di ruggine
dopo aver percorso le scale a due a due
aggrappandoci alla ringhiera quasi divelta saltando
gli scalini spaccati. Dopo nelle piazze e nei parcheggi
abbiamo sentito il gelo riempire il vuoto e il silenzio
il mormorio di coperte avvolte sulle spalle
dei falò sulle scalinate di chiese e fontane.
Non avevamo capito che il terremoto era appena
iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore
di tubi Innocenti e siringhe di cemento armato
di lavori in corso e doppi turni. Checco o’ cecof
mi chiamavamo alle elementari, per gli occhiali,
alcuni scherzavano altri picchiavano, io
mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle.
Ci prendevamo a mazzate all’uscita della scuola
rubavamo qualcosa nei negozi evitando i calci
in culo e i chitemmuort, tornavamo urlando
o tacendo mentre nei vicoli teste affioravano
dai muretti di contenimento, come alieni, armati
di lacci emostatici e siringhe. Altri sparavano
qualcuno moriva qualcuno si arricchiva.
Abbiamo imparato di nuovo a contare da zero
ad avere un nuovo prima e dopo come fosse
un’altra nascita di cristo come lo era stato prima
il colera o la guerra, per chi se la ricordava. Ma
da allora, veramente, dalle sette e trentaquattro di quella
domenica sera, lo giuro, io, non ci ho capito più niente.


http://viomarelli.wordpress.com/2012/11/14/su-la-neve-di-francesco-filia/

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