(Il presente saggio è apparso su Nazione Indiana il 26 novembre del 2012. http://www.nazioneindiana.com/2012/11/26/appunti-damore-gioia-e-disperazione-una-lettura-di-pastorale-di-giorgio-cesarano/ )
Mi spaccherei
le mani per passarti/ un grano verosimile d’amore. In questi versi di Due, una delle poesie di Pastorale
[1], c’è
tutta la straziante tensione dell’esperienza poetica e intellettuale di Giorgio
Cesarano (Milano, 1928 – 1975). Un’esperienza che lega in modo inestricabile
amore, disperazione e sforzo spasmodico di comprensione intellettuale della
realtà. La disperazione - che è la cifra ultima delle poesie di Cesarano - non
è nel sentimento soggettivo, ma nelle cose stesse, nella loro radice, perché la
radice di ogni cosa, di ogni amore, di ogni bene è l’incombere del niente (tu bene della terra/ inguaribile e noi di tanto niente// gli eroi vivi,
le anime del niente). Solo sotto la minaccia di tale incombere avviene
autenticamente qualcosa, soprattutto, se questo evento si presenta nella
dimensione che più mette a nudo la nostra inermità: l’amore come desiderio di
ciò che già da sempre manca. In questo tendersi verso l’altro consiste l’epicità
dei romanzi naturali di Cesarano. Essa
sta nel relazionarsi tragico di due o più individualità che si scoprono unite
in una lontananza incolmabile, confermata, in maniera ancora più lancinante,
dal compimento del rapporto amoroso: il contatto dei corpi e la penetrazione
sessuale (Fermo qui vicinissimo/ amandoti
con molto mio,/ mentre tuo, tutto il tuo/ -ferma qui vicinissima - / diminuire,
rimpicciolirti, / con strazio non so (piccolo?) / mi sgorga per te via.).
Ecco il paradosso tragico: più i rapporti, le relazioni, diventano intensi, più
c’è un coinvolgimento che mette in gioco tutto l’essere che siamo (al di là, o,
meglio, al di qua, della posticcia distinzione mente/corpo), più si sperimenta
l’impossibilità di afferrarsi, tanto più si scopre la propria strutturale
solitudine ontologica. Solitudine estrema, perché è la persona amata che ce la
rimanda in maniera irrefutabile (debole
come ora e tradito/ da tanta mia spesa dolcezza/ non sapevo vedere di te/ che
il nero, la cupa forma che mi assorbe). E come dire questo in versi che
siano veri? Senza cadere nel trabocchetto lirico dell’anima a nudo, che non fa
altro che isolare un’interiorità che non può, senza cadere nella deiezione del
luogo comune, essere isolata dal mondo a cui appartiene? La verità del nostro
stare al mondo emerge, nei versi di Pastorale, nell’orizzonte
insuperabile del desiderare. La strategia poetica adottata da Cesarano è quella
del “romanzo naturale”, ossia, nel superare qualsiasi lirismo attraverso un racconto
espressionistico, dialogato e a volte ruvido[2]. Dove l’affidarsi al racconto è dovuto,
però, a un controllatissimo uso del verso e del periodare, in cui sintassi e
metro quasi mai si incontrano e il ritmo è un alternarsi vertiginoso
d’improvvise accelerazioni e frenate, di movimenti ellittici, spesso spezzati
nel dettato metrico, e discese a precipizio nel vortice del verso, in cui il
sovrapporsi dei piani narrativi, descrittivi, dialogati è tutto teso e
convergente in una rivelazione che ha quasi sempre, però, la luce accecante del
negativo. Negativo insito nel nostro stare al mondo e dato da quel muro
invalicabile, anche per l’incessante desiderare, che è la morte come
possibilità ultima e irredenta; desiderare, che proprio per questo, non risulta
mai veramente nostro, a nostra disposizione, ma si mostra in un’alterità
radicale che si concretizza in noi nell’inesauribilità del desiderare stesso
che nessun essere, nessun altro, nessun momentaneo soddisfacimento potrà mai colmare
del tutto (Tu alzi uno sguardo/ di cuoio
e “amore tu mi hai dato tanto”/ dici e “caro non sono capace di dare niente”).
In questo impatto tra il desiderare incessante, di cui l’amore è l’aspetto
centrale, e il morire, della vita e nella vita, consiste la dimensione
strutturalmente disperata della condizione umana (mi vedi partire/ “non sono capace di vivere” immobile a un palmo/ mi
vedi che taglio la corda che me ne vado/ “non sono capace di vivere senza di
te”/ filando seduto morto a un palmo da te). L’unità di parola che dice e
cosa detta, nei versi di Pastorale, è il tentativo di rimarcare
fino in fondo la disperazione della logica del possesso amoroso e di qualsiasi
logica di possesso. Più ci si sprofonda nell’autenticità del rapporto amoroso,
come possibile compimento del desiderio, tanto più ci si scopre nudi, inermi,
distanti - anni luce o solo un millimetro - dalla persona o dal fantasma amati (tutto perché/ hai quella tremenda/ faccia
della mia// (anima) perché mi spacchi/ il ventre e mi/ (anima) il ventre e mi/
nuda ridi e tu/ sprofondo dentro il corpo e non ti tocco/ (anima) e non ti
tocco/ per quanto è lunga una notte duro/ dentro il tuo corpo stremato e non/ e
non ti tocco, anima,/ sprofondante faccia della mia/ vita (anima) mai.). E’
la struttura del desiderio stesso che ci consegna alla nostra disperazione di
essere finiti, di essere gettati nell’esistenza e di non aver creato nulla e
dove le parole servono sì a dare un senso, ma anche nella loro ossessiva e
spesso elusiva ripetizione, ci riconsegnano all’estraneità di ciò che ci sta
davanti e che non possiamo fare nostro mai definitivamente. Possedere l’altro
significa sentirlo lontano radicalmente e senza speranza, perché anche
l’estrema vicinanza, l’incontro dei corpi, l’unità sfiorata è la lontananza più
incolmabile, in quanto quel corpo, che ci accoglie, ci dice in maniera
irrefutabile che non sarà mai nostro, perché è esso stesso un centro desiderante
altro da noi, che la storia che lo abita è altra da noi. Questo rifiuto
oggettivo dell’essere ci porta a sprofondarci, una volta ancora, nel suo essere
altro, per vivere in carne ed ossa la logica di questa esclusione, del dolore
lancinante di non aver creato noi l’altro che amiamo in maniera inguaribile (d’un mio dentro di me che quanto a me
t’include/ ma quanto al tuo sentirti qui di fronte/ e al mio fissarti e
nominarti altra/ da me, esclusa, e con tutta la tua/ vita – ecco la fitta/
illogica che addolora i miei occhi:/ il non averti fatta/ io, non averti io
generata come questa cosa/ amabilmente intima dell’aria/ buia e dei suoi suoni,
dei quali, remissivo/ patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino/ alla
pelle dentro nudo/ in un gelo lampante, irrefutabile). In questi versi
lucidi e strazianti è detto poeticamente quello che poi Cesarano metterà sempre
più in chiaro nel suo lavoro critico e, in particolare, nelle tesi di Insurrezione erotica. In Due,
nelle due persone che si amano e si cercano e si desiderano fino allo spasimo,
si apre la possibilità di scoprire la radice profonda della dimensione amorosa,
in cui “l’oggetto d’amore — il feticcio
dell’essere — si fa trasparente fino a svelare d’essere una via, un movimento,
una sovra-agnizione, un’iniziazione, quando perde la sua opacità d’oggetto e
fascinazione di feticcio, che veramente l’amante scorge, non il fondo, ma il
principio dell’essere possibile, e la sua semplicità luminosa e terribile. È in
questo istante che l’amante conosce la gravità dell’impresa, è ora che vede
l’amore come conquista e superamento, come comunione al di là del sé, lotta per
la vita, come comunicazione concreta e pragmatica del possibile, come
insurrezione”[3]. Che cos’è qui l’insurrezione?
E’ il riconoscimento della libertà del desiderare umano, che insorge contro qualsiasi
ingabbiamento definitivo. Libertà che però non ha nulla di rassicurante, ma è
lo stare nella dimensione inquietante dell’esistenza, nel gioco serissimo del
riconoscersi reciproco delle individualità, come possibilità gettate nel nulla
dell’esistenza, ossia di una dimensione che è impossibile irrigidire
definitivamente, come, secondo la prospettiva storica in cui si trova Cesarano,
fa la logica del Capitale. E quindi l’amore è platonicamente il luogo in cui
noi siamo consegnati alla nostra dimensione più propria, attraverso la
contemplata e desiderata bellezza. La differenza fondamentale, tra la dimensione classica
dell’amore e l’esperienza che ne ha la nostra epoca, è che il desiderio non si
inserisce in una gerarchia salvifica il cui fine è il Bene, l’Agathón, ma è il luogo in cui noi scopriamo il
grado zero del nostro essere, la ferita profonda che ci abita. Anzi più siamo nell’impresa dell’amore,
nella sua apparente armonia, nella sua anelata armonia, più siamo consegnati
alla nostra radicale imperfezione e di chi ci sta innanzi (Con educata e toscana voce e per eufemismi/ dici la tua imperfezione./Dici
dei due mariti dici dei genitori.), all’angoscia della nostra impossibilità,
della nuda possibilità del nostro essere e all’inadeguatezza del nostro dire. La parola,
o dice troppo o non dice abbastanza, e qui il verso di Cesarano, al di là di
qualsiasi abbandono espressionistico, ha il tratto disperato di una ricerca
impossibile della precisione assoluta nell’esprimere il mondo come si dà nel
suo divenire (emozioni, cose, idee, sensazioni, ombre, luci) e quest’accostamento
alla cosa del dire che rende strazianti le poesie di Cesarano (Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia/
(e in una sua intimità con l’aria buia/ dove splende) risplende: l’armoniosa/
testa, l’armonioso viso – che mi commuove/ e mi angustia e mi frena/ nella
bocca il più delle parole – troppo/ deboli, o troppo, ancora, intense). Strazio
reso ancora più lancinante dall’uso accortissimo e rivoluzionario delle figure
retoriche, come nel raddoppiamento di Epitaffio, o, sempre nello stesso
testo, la figura della sospensione, che rende spasmodico l’andamento dei versi,
in una tensione crescente che si risolve in un finale vertiginoso (ultimo crampo di inguaribile amore). E
se la poesia dice l’inguaribilità del crampo
amoroso e se questo crampo, che è
esso stesso il dire poetico, non può andare oltre la costatazione drammatica
della nostra finitezza e imperfezione all’interno di un desiderare
trascendentalmente incessante, anche la poesia deve finire, se vuole rimanere
fedele alla sua dimensione veritativa e non trasformarsi in un gioco insensato
che scimmiotta, ma non svela, il senso profondo dell’esistere.
In questo limite strutturale della
poesia, oltre che in motivazioni personali e storiche, si può spiegare
l’abbandono del poetare da parte di Cesarano, già a partire dalla fine degli
anni Sessanta e, invece, il rivolgersi esclusivamente alla critica sociale del
Capitale[4].
La scelta irreversibile di Cesarano dimostra, ancora una volta, l’indissolubile
legame tra teoria e poesia, il dialogo inestricabile tra queste due diverse dimensioni,
che però si confrontano con la stessa cosa: l’enigma dell’esistenza dell’uomo e
del suo rapporto con il Mondo. E qui assume un senso la scelta del genere pastorale,
come dice il titolo di queste tre poesie. Esso è il tentativo, come evidenziato
in precedenza, di uscire dalla ristretta dimensione lirica e di ridefinire il
rapporto dell’uomo con il mondo, con ciò che definiamo natura e che naturale
non può mai essere fino in fondo, perché dove c’è uomo non c’è più solo natura,
ma anche ciò che natura non è più o non ancora: simbolo, quel rimando continuo
a qualcos’altro, quel cerchio mai definitivamente chiuso, come il desiderare ("Come tutto che è secondo natura/ e non può
ferire"/ ma secondo natura feriti sediamo/ ammutoliti tenendoci
per gli occhi/ con sorrisi ). In questo senso il genere pastorale da Cesarano
è usato in senso ironico - nel senso dell’etimologia di rovesciamento
dissimulatorio, demistificante - e anti-idillico. L’evidenza di questa
operazione si mostra soprattutto in Altri. Qui Cesarano, con
sguardo da entomologo (che, però, proprio nel distacco che tale atteggiamento
comporta, nasconde una segreta e più autentica compassione, retta dal voler
cogliere le relazioni nella loro spietata verità), costruisce vari “quadretti idillici”, in cui sono colti vari
momenti amorosi: la crudezza dell’accoppiamento, il rapporto fisico e il
momentaneo appagamento del desiderio o il dolore. In queste situazioni,
fotografate poeticamente quasi sempre di nascosto, non c’è nessuna armonia
edenica ma panico di teste/ negli
interdetti calori dei grembi,/ niente di niente. La natura, il paesaggio, è
erba cresciuta negli spurghi e insetti loschi e in questa natura,
antropizzata e paradossalmente selvaggia, originaria e degradata, ognuno vive
in quel che rimane di una logica,
l’unica che l’uomo sembra conoscere, quella del potere dell’uomo sull’uomo e
solo con una remota, ancestrale memoria
d’un filo di passione, in chi in questa logica è sottomesso, di cui rimane
soltanto una fame inesauribile e senza
speranza (ma l’estate d’erbe/ cresciute
negli spurghi e insetti loschi/ (ognuno della sua residua logica/ padrone
interamente e servo forse/ con memoria d’un filo di passione)/ minima e tutta
inferociti getti/ defunti presto per veleni, fame.). Ecco, scoprendo la nostra
fame, mai nostra perché non la scegliamo, scopriamo la tensione lacerante che
ci abita, si arriva alla radice del proprio essere: un nulla che desidera ciò che non ha, ciò che
non è. L’esperienza del nulla prima che valoriale è ontologica, essa è il cuore
delle poesie di Cesarano, ed è la fonte della gioia, sentimento limite e
necessario, come l’angoscia, del nostro stare al mondo (allora quei versi non me li seppi spiegare,/
partigiano della gioia e così sordo all’inferno./ Disceso ora con te dove
brucia l’inverno). Il partigiano della gioia è colui che ha fatto
esperienza della fine, della radice finita e disperata di ogni cosa, del gelo,
dell’inverno definitivo, che abita ogni cosa, perché è già da sempre con
un piede sul baratro della morte senza rimedio, del vero inferno del
niente. La gioia è il sentire di chi scopre la natura gratuita del suo stare al
mondo ed è quindi già oltre ogni pre-occupazione ed è gettato, proprio a
partire da questa disperazione, in un insensato, inerme e furioso amare,
sperare[5].
Quindi amare, desiderare, è scoprirsi finiti, il
sentimento della fine produce angoscia, disperazione ma, secondo la logica dei
contrari, la disperazione si rovescia in gioia, che nell’etimo richiama al
goduto a ciò che si è desiderato e che per un attimo si è fruito, senza l’illusione
di averlo posseduto. In questo la gioia è accettazione incondizionata del
nulla, di ciò che incombe già da sempre sull’incessante divenire di ogni cosa e,
quindi, la gioia non può non essere sguardo radicale sulle cose finite. Ora da
qui riparte, inizia tutto, tutto il possibile, l’alba di ogni cosa (Con la testa sul mio cuscino/ dormivi nei
tuoi capelli/ sanguiformi nell’alba), senza più nessuna gabbia salvifica o
logica del rimedio al nulla che ci pervade - il crampo amoroso è e resta
inguaribile -, ma abbandono rabbioso
d’amore, che è un aprirsi al desiderio nella sua dimensione di tensione[6]
feroce, senza la pretesa di raggiungere un bene definitivo (Gli altri che t’amano e io/ - è finita, finita,
finita -/ Gli altri che t’amano e tu e io/ giustamente per sempre feroci, noi
che ci perdiamo sempre/ apparendoci in lunghi corridoi,/ noi siamo (…)/ i morti
della vita). Ma insito nel desiderio vi è anche una dimensione di nostalgia
verso un bene già da sempre perduto e i cui contorni sono sempre più sfumati e
che, però, continua a spingerci verso un orizzonte futuro - l’origine è la meta
- che redima anche il passato ormai irrimediabilmente svanito (aveva i tuoi occhi/ la ragazza che in questo
stesso hotel/ d’ironico nome Victoria/ quand’ebbero gli anni principio d’amore/
venne diritta,vita.) e che nessuna contemplazione (-ora ti guardo mentre perdi luce/ piangendo nei tuoi capelli
all’addio,/ sul campo è l’ora dei pipistrelli-), per quanto emotivamente
coinvolta, può restituire, anzi non può che confermare, nel presente amoroso (Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi/
di me che discendendo li raggiungo.), la lancinante perdita che accompagna
ogni attimo passato.
E qui può essere visto ciò che Cesarano ritiene che
l’amore rievochi, cioè l’altro come possibilità, come una tendenza a fruire
della realtà, cioè a godere autenticamente di essa, senza rimuoverne la
dimensione intrinsecamente dolorosa, lasciandola essere ciò che è, non
assimilandola a sé. In altre parole, se il desiderare, come è stato mostrato, è
la struttura trascendentale, cioè tale da abbracciare e superare ogni realtà
determinata, dello stare al mondo dell’uomo, esso sarà intrinsecamente
inesauribile, infinito e nessun oggetto potrà soddisfarlo. Quindi, la logica
del possesso come appropriazione definitiva della cosa desiderata, è uno snaturare
l’intrinseca essenza del desiderare, come fa, secondo Cesarano, il Capitale, trasformando
tutto in feticcio. Il desiderio non può morire nell’opacità di un oggetto, ma
aprirsi alla luminosità semplice e terribile del principio amoroso, che,
consegnandoci alla nostra nudità e nullità, ci proietta in una relazione
possibile con altri centri desideranti, a loro volta, già da sempre decentrati
perché proiettati in un altro, che al tempo stesso li accoglie e li respinge.
Forse il gesto finale di Cesarano contraddice tragicamente questa possibilità o
forse le dà il sigillo dell’irrevocabilità. Resta comunque una consegna
nell’esperienza di Giorgio Cesarano, quella di esistere radicalmente, ossia
mettendo in luce la radice autentica, finita, tragica - se tragico è ciò che,
per dirla con Hegel[7], continua a finire - dell’esistenza
umana, in ogni gesto politico, poetico, intellettuale, amoroso.
Infine, per tornare ai versi con cui abbiamo aperto
queste considerazioni, lo spaccarsi le
mani è il destino dell’uomo, che decide di affrontare la sfida di
corrispondere in maniera autentica alla natura amorosa del proprio stare al
mondo. Questo spaccarsi le mani non
può che essere finalizzato al riconoscimento dell’altro, perché l’amore non è
un sentimento singolo[8] e
la condizione umana è protesa verso un compimento che non può venirle da sé
stessa. Di conseguenza ogni uomo non può che essere teso a farsi riconoscere
come amante dall’altro, senza il quale altro, senza il reciproco irriducibile riconoscersi
- nel grano, non più Vero, ma solo verosimile, perché lo stesso vero
diventerebbe un feticcio – nessuno potrebbe essere sé stesso, ossia quel crampo di inguaribile amore che
continuamente chiede un senso profondo al suo stare al mondo, a questa vita che,
comunque, è, ineluttabilmente e sempre, persa.
(i morti della vita, e tu tersa/
faccia, che ci trattiene veri di dolore,/ della sorte, della vita che è
persa,// ultimo crampo di inguaribile amore).
Francesco Filia
[1] Giorgio Cesarano, La tartaruga di Jastov, Mondadori, Milano, 1966, ora in Romanzi naturali, Guanda, Milano, 1980. I tre testi che compongono la
sezione Pastorale(1964-1965) sono: Due,
Altri ed Epitaffio. Il libro Romanzi
naturali inoltre nella prima sezione comprende i tre romanzi naturali: I
Centauri (1964-1966), Il sicario e
l’entomologo (1968) e Ghigo vuole
fare un film (1968-1969), non
oggetto della presente lettura, che si concentra sui tre testi di Pastorale .
[2] Cfr. Claudio Di Scalzo, Il poeta
suicida Giorgio Cesarano. Tellustratti 9. 16 Maggio 2007. In Tellusfolio.
[3] Giorgio
Cesarano, L'insurrezione erotica (Autocritica della corporeità metaforica)
da Manuale di
sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974.
[4] Giovanni Raboni, Corriere della Sera Pagina 35(23
dicembre 2000). “Quando Cesarano, di colpo,
rinunciò a tutto questo per dedicarsi interamente prima al lavoro politico con
un numero sempre più esiguo di compagni e poi a una riflessione teorica
severamente e dolorosamente solitaria, era convinto, credo, di compiere l'
unico gesto rivoluzionario ormai consentito a un artista: sopprimere con la
propria arte la sottomissione al «dominio reale del capitale» che in essa
oggettivamente, inevitabilmente si incarna e si perpetua. ” Sicuramente la critica di
Cesarano al Capitale -che ha prodotto oltre al già citato Manuale di sopravvivenza (1974) anche Apocalisse e rivoluzione scritto con Gianni Collu (1973) sempre
edito da Dedalus e una incompiuta Critica
dell’utopia capitale pubblicato postumo da Varani - resta una delle più
significative tra le tantissime partorite in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta,
si veda, a tal proposito, il testo di Claudio D’Ettore, Giorgio Cesarano e la critica capitale, Il covile, 2011.
[5] Vincenzo Frungillo, Fisica e poesia. Il corpo nero.
Una lettura della quarta egloga di Elio Pagliarani da Lezioni di fisica e
Fecaloro. “Atelier”, numero 51. Anno XII. Settembre 2008, pp. 37-45.
[6]
L’italiano “desiderio” corrisponde nel greco di
Aristotele ad órexis: sostantivo che
deriva dal verbo orégo (“porgo,
sporgo, tendo”).
[7] E quanto del pensiero di Hegel, oltre alle citazioni e ai riferimenti
espliciti (riguardo al tragico, all’origine come meta della storia, all’amore –
oggetto di una citazione in esergo nelle tesi d’insurrezione erotica -e alla
dialettica servo / padrone, richiamata espressamente in alcuni versi di Altri) ci sia nelle meditazioni e nella
poesia di Cesarano sarebbe degno di un’indagine a parte, attraversando Marx,
Nietzsche, Bataille e, soprattutto, attraverso quello snodo centrale per la ricezione
di Hegel nel Novecento che sono le
lezioni di Alexandre Kojève. E, come prima traccia di questo possibile percorso,
si potrebbe azzardare l’ipotesi che la lettura di Hegel, tentando di andare
naturalmente oltre l’orizzonte filosofico hegeliano, permette a Cesarano di
superare la dimensione del desiderio come solo appagamento di un bisogno - come
invece emerge in molte riflessioni tra ‘800 e ‘900, si vedano ad esempio Nietzsche,
Freud, Sartre - e di relazionarsi ad essa come apertura che tende a liberare,
anziché come prigione che chiude nel possesso di un oggetto. In questa visione,
la logica del Capitale sarebbe la realizzazione totale e perfetta della tendenza
a concepire il desiderio come appagamento di un bisogno attraverso l’oggetto
merce, che naturalmente è tale e indispensabile solo all’interno di tale
logica. Forse il limite dell’orizzonte storico della lettura di Cesarano è la
feticizzazione stessa del Capitale come altro dall’autenticità dell’esistenza e
di non riuscire a inserirlo in una dimensione epocale, che contiene il Capitale
come riferimento dialettico, ma che non si risolve esclusivamente in esso; ma
tale ipotesi andrebbe suffragata dall’accesso all’opera completa di Cesarano,
cosa attualmente impossibile vista l’inspiegabile assenza dei suoi testi dal
mercato editoriale.
[8] Si veda la citazione di Hegel in
epigrafe a L’ insurrezione erotica."Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi
che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l'uno per l'altro nel
modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all'altro. L'amore
esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano
sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni;
esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare;
non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L'amore è un
sentimento, ma non un sentimento singolo." G.W.F. Hegel, L'amore, la corporeità e la proprietà., in
Scritti teologici giovanili. Guida, Napoli, 1989.
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