sabato 29 settembre 2012

Recensione a Futuro semplice di Gianni Montieri, Lietocolle, 2010.

Difficile scrivere di un libro che senti molto vicino per tematica e per angolazione di sguardo, sembra che le sue parole ti stiano addosso e non vogliano mollare la stretta di un abbraccio. Può sembrare fin troppo ingenua questa considerazione, allora ti fermi a considerare il contenuto dei testi, in questo caso poesie, che hai davanti agli occhi: parlano di una città, Napoli, che è il nucleo di altri luoghi (Giugliano, Milano), e il centro gravitazionale di una vita. Arrivi a pensare che quel pendere verso una condizione originaria sia anche la tua, e cerchi di capire, ancora una volta. Questo mi è capitato leggendo Futuro semplice di Gianni Montieri (Lietocolle, 2010). La raccolta si apre con questi versi, contenuti nella poesia Risparmi: “Io sto al sud proporzionalmente/ appartenenza più che somiglianza/ porto tracce degli umori, la durezza/ -certi sguardi-“ Chiedersi del sud, della propria appartenenza ad esso, non è mai cosa scontata, proprio perché in queste terre la condizione dello spostamento è cosa mai pacificata. Prima che spostamento geografico (il dato sociale dell’emigrazione), intendo uno spostamento linguistico che comporta una diversa visione delle cose, rispetto al resto del Paese. Il bilinguismo secolare, dialetto e/o Italiano, in cui è calata questa parte d’Italia, costringe il poeta a interrogarsi naturalmente, per necessità, sullo spostamento. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che per i napoletani il dialetto è la vera la lingua madre, mentre la lingua acquisita è l’Italiano. Il dialetto è una lingua prevalentemente orale, mai formalizzata in grammatiche o manuali: il dialetto è la lingua dell’appartenenza. Scrivere di Napoli in lingua italiana significa allontanarsi geograficamente e semanticamente dal centro. (A latere di quanto sto dicendo, mi verrebbe da chiedere: quali e quanti sono gli scrittori napoletani che provengono veramente dal “corpo di Napoli”?) Già nei primi quattro versi di Futuro semplice quindi abbiamo la condizione della silloge, l’aporia che deve affrontare il poeta: dire dell’origine allontanandosene. Scrive Montieri ancora nella poesia Risparmi: “dicono che non ho l’accento/ particolare privo d’importanza/ la parole tronche, questo conta/ sono tutti i miei risparmi”. La poesia d’apertura è di una semplice e tremenda efficacia. Lo spostamento diventa quindi condizione di partenza, la condizione di chi vive il tempo che è da venire (Il futuro semplice del titolo): “Ci siamo spartiti molto/ dissolto in lontananza il resto/ tenendo bene in mente/ la scelta fra l’andarsene e il sognare” (Parzialmente terreni). Questo stato esistenziale pone la raccolta di Gianni Montieri nell’orbita di altri libri lirici pubblicati in questi anni, L’attimo dopo di Massimo Gezzi o il libro della più giovane Anna Ruotolo, dal titolo Secondi luce. Si leggano in questa direzione i versi di Parzialmente terreno, l’uso che viene fatto dell’a capo: non è una smorzatura del senso, non è di certo l’ermetica o simbolica evocazione che si cerca, ma la riproduzione della dialettale ritrosia verso la compiutezza. Anche la bella poesia Absolute beginners, dedicata a Raymond Carver, e ispirata al suo famoso libro di racconti, parla di un taglio o meglio della famosa questione dei tagli apportati dall’editor alle storie dell’autore americana. Qui la faccenda diventa del tutto personale, direi intima: “certo questa storia dei tagli all’epoca/ non devi averla digerita nemmeno un po’/ loro dicono:”è il mio lavoro”/ e invece è il tuo// tornando a noi, che dirti?/ Certi giorni l’editor servirebbe a me/ quando non so risolvermi ad uscire/ e nemmeno in giardino so quando potare”. Le altre tappe segnate nel libro, Milano, Londra, Torino, ma anche Quartoggiaro, Gratosoglio, le fermate della metro di Milano, Cordusio, Conciliazione, portano questo peso. O meglio sarebbe dire questo limite, per citare la bella poesia Matematica applicata: “Provo a scomporre:/ tolgo i pezzi ad uno ad uno/ dal bordo al centro/ in cerca del contrasto/ del giorno fuori posto// Matteo conosce i logaritmi/ mi farà un codice d’ingresso/ e un altro per l’uscita/ un denominatore, uno spiraglio// nell’attesa indietreggio/ un metro/ chiudo gli occhi/ respiro piano/ e questo è il limite”. Se questo è a mio avviso il tema portante del libro, altro sarebbe da dire sulla resa dei versi e della lingua. Ma il giudizio a questo punto sembra chiaro: parliamo di un testo di grande chiarezza espressiva, anche se non condivido la definizione di “realismo” applicata ai versi di Montieri; mi sembra invece che i parametri della post-lirica siano i più giusti: qui non c’è rispecchiamento alcuno e nessuna presunzione di realtà, semmai c’è l’impossibilità di dirla, la realtà, pur dovendola abitare. I fatti storici e di cronaca, l’emergenza ambientale, l’emigrazione, pur se vissuti come dato personale dall’autore, sono pur sempre filtrati dal presupposto lirico sopra evidenziato. La raccolta si conclude con la poesia Abitudini che recita così: “Non saranno più le scarpe fuori posto/ un nome al suono della sveglia/ fra qualche tempo sapremo dirci: è giusto/ che abbiamo avuto tanto// io, io non lo so davvero/ se saprò dare un senso/ alle porzioni monodose,alla cottura crisp/ addormentarmi voltato dal tuo lato/ senza tremare, senza farci caso". In tutti i versi della poesia è raffigurata la parzialità, cosa strana e spiazzante se si considera che si tratta di una poesia d’amore: scarpe spaiate, il nome tra veglia e sonno, la cosa giusta fuori tempo, l’io separato dal senso, le porzioni per una persona pur essendo in due, il letto a due piazze pur essendo il giaciglio di una coppia. Ancora un volta un testo che parla di separazione, pur se parla d’amore. (Vincenzo Frungillo)

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