mercoledì 22 settembre 2010

Il tradimento di chi è felice




“Se davvero esisti, se non sei/ una stupida chimera, o un’allucinazione della notte,/ scendi, mostrati, svelaci il tuo segreto!” Leggendo Stazioni (Nuova Editrice Magenta, 2010), l’ultimo libro del poeta, saggista e traduttore Giancarlo Pontiggia, la condizione che mi è parsa subito predominante è quella dell’attesa - non a caso il libro è stato scritto negli ultimi mesi del 1999, alla vigilia del nuovo millennio - di un’attesa di qualcosa al tempo stesso imminente e impossibile. In questo testo, scritto per il teatro, sono rappresentati personaggi colti in uno stato di sospensione, di indefinitezza, ma comunque di preparazione, di tensione verso qualcosa che non si conosce, o forse che si conosce fin troppo bene, come traspare dalla quasi totalità dei frammenti di quest’opera, ossia il nulla, la morte, personificata in alcuni dei dialoghi e presenza incombente o sotterranea in tutti gli altri.
Pur essendoci sullo sfondo questa dimensione angosciosa, non emerge predominante, nelle figure tratteggiate dall’autore, la disperazione, che sicuramente c’è o c’è stata, ma si è trasformata in rassegnazione, ironia, “bizzarri umori”, antica sapienza e questa sedimentazione dà a tutta l‘opera un tono uniforme, allucinato, ma al tempo stesso domestico, intimo, come di una verità - anche quella della fine di ogni verità, al di là di ogni paradosso scettico - che non va urlata ma sussurrata, magari sotto un cielo grigio e uggioso. Ed è forse quest’ultimo aspetto il fascino maggiore del libro, nonostante passaggi bellissimi, definitivi e sapienziali, che fanno impennare il tono complessivo del discorso ( “si è soli... soli... nell’abisso del Tempo...”).
L’opera - ambientata a Milano, città che ha il ruolo di una vera e propria protagonista, motore immobile di tutti i dialoghi - è stata concepita dall’autore come composta da scene teatrali che si susseguono o su un palco ruotante o intervallate da spazi e suoni di demarcazione. Queste scene sono le stazioni del titolo e, come sottolinea lo stesso Pontiggia nella seconda di copertina, il “riferimento è alle stazioni della via Crucis, ma anche al significato etimologico del vocabolo: luoghi dove si sta spesso per caso, dove si è condannati a stare, e dunque anche gironi purgatoriali”. Ed è proprio la dimensione purgatoriale, più vicina alla condizione dell’uomo su questa terra, che rende veritieri anche i dialoghi apparentemente più violenti e “assurdi”. In fondo, nella vita non c’è né la disperazione definitiva dell’inferno, né la beatitudine dell’essere presso dio, ma uno stato intermedio - intermedio come il genere scelto, tra il dialogico e la rappresentazione scenica - tra la speranza, fosse anche solo quella legata al passaggio dell’autobus Novantaquattro, di una felicità irraggiungibile e la rassegnazione a una vita grigia, “avvilente” e anonima. E, in questo stato, quei pochi che osano dichiararsi felici, come Ottavio, il barbone della prima stazione, sono dei traditori perché rinnegano la condizione comune a tutti gli uomini: l’infelicità. Anzi se sono felici ne devono sentire tutta l’illusorietà, la colpa e lo scandalo. La felicità non è per gli uomini, semmai è un dono divino, che però l’uomo contemporaneo e metropolitano, non può che sentire come un’attesa sempre più remota e impossibile. In questo libro, se c’è consolazione, è nella parola stessa (poetica o quotidiana e triviale), anche la più crudele, ma in quanto crudele è sentita da chi scrive e da chi legge come veritiera e portatrice di un’etica autentica e dolorosa, che non rinuncia a un umorismo feroce, di chi sa che gli autori che hanno messo su quella recita senza repliche che è la vita, se ci sono, “sono alla frutta. Non hanno più idee, più niente da dire, e ci piantano qui, nella merda”.

Francesco Filia

sabato 18 settembre 2010

Chi è il carnefice



il ventre di uno squalo bianco
appena pescato in mare
squarciato
contiene resti umani

è d'obbligo il dna
per capire chi è la vittima
ma..........................
chi.........................
è...........................
il..........................
carnefice...................

sabato 11 settembre 2010

Scogliera



Corriamo nel grigio cenere della polvere e il frinire di cicale non ancora morte. Il primo scavalca il cancello, seguito dagli altri. Maglie e costumi restano impigliati tra le sbarre o si strappano, mentre la pelle è graffiata dal filo spinato. Il sangue rapprende e coagula all’aria.
Mezzogiorno è alto nel cielo, infuoca l’aria e arde la terra. Ogni cosa è conficcata nell’orizzonte. La macchia di piante e arbusti è bruciata dal sole e piegata da passi radi che creano il sentiero. L’odore pungente di rosmarino penetra le nostre narici. La nostra pelle di ragazzi è spessa e scura e i muscoli affiorano guizzanti e pronti alla prova.
Paco arriva per primo alla sommità della scogliera. Guarda in basso nel riverbero del mare, si volta nella nostra direzione e, nel silenzio del meriggio, balza in perfetto equilibrio di roccia in roccia . Noi seguiamo il percorso indicato.
Arriva nel luogo prescelto, Paco getta il telo sugli scogli e lancia le scarpe in mare, ad indicare il punto dove entrare in acqua. D’un tratto si slancia nell’aria e fende lo specchio del mare con le mani giunte e la testa e il corpo protesi. Barone lo segue e poi ogni altro respira e si tuffa nel vuoto. I corpi nuotano in apnea tra lame di luce nel blu cobalto. Risalgono e affiorano respirando a pieni polmoni. Le grida e i richiami rimbalzano tra le rocce. Inizia la conta di chi è in acqua e gli occhi si alzano su quelli rimasti sulla costa.
“Tuffati! Tuffati senza guardare!” Ora le voci della banda confondono il Piccolo. Il rito è iniziato. La banda esige la prova. Gli sguardi non confortano ma sfidano. L’impatto stordisce ma il Piccolo è in acqua. Resta solo Azzolini, esita per due volte sul ciglio da varcare e non resta che lo scherno, chi non sente la prova è fuori e si ritira nell’ombra. C’è chi rimane a fissare la propria esclusione.
I volti segnati dal sale scorgono con precisione la preda, il riccio è preso, spaccato e succhiato via. La sfida continua e l’altezza è sempre maggiore, il corpo di Paco s’inarca sicuro nel balzo più alto, un gesto descrive la traiettoria nell’aria. Un frutto di mare è sottratto al fondale e lasciato su uno scoglio a marcire. Un ultimo slancio e risaliamo gli scogli, nessuno si volta. Vivara alle nostre spalle giace nel sole.

Francesco Filia

mercoledì 8 settembre 2010

Ionica


Ionica

Se abbiamo abbattuto le loro statue
se li abbiamo scacciati dai loro templi
non per questo gli dèi sono morti. O terra
di Ionia, sei tu ch’essi amano ancora.
Quando il mattino d’agosto ti avvolge tutta
nella tua aria passa un vigore di quella loro
vita e una figura d’efebo, indecisa,
immateriale, a volte corre via veloce
sull’alto delle tue colline.

(traduzione di Margherita Dalmàti e Nelo Risi, Einaudi 1968)


Ionica

Se, frantumati i loro simulacri,
noi li scacciammo via dai loro templi,
non sono morti per ciò gli dei.
O terra della Ionia, ancora t'amano,
l'anima loro ti ricorda ancora.
come aggiorna su te l'alba d'agosto,
nell'aria varca della loro vita un èmpito,
e un'eteria parvenza d'efebo,
indefinita, con passo celere,
varca talora sulle tue colline.

(traduzione di Filppo Maria Pontani, Mondadori 1961)


Alcuni giorni di quest'ultimo agosto li ho trascorsi in Calabria (la cosa più greca che abbiamo in Italia, a mio avviso), tra Reggio, Melito, Scilla e, in un pomeriggio al mare, mi sono tornati in mente sia la poesia di Kavafis sia il discorso di Chirone a Giasone nella Medea di Pasolini,poi è affiorato alla mente un rumore particolare, o forse è il rumore che mi ha fatto ricordare la poesia e il film, che da bambino mi incantava: la risacca delle onde tra le pietre...Ecco per me gli dèi sono lì, in quel rumore in quel silenzio ad esso sotteso...ma ormai da millenni la loro voce è flebile, la natura è diventata naturale e l'ascolto è sempre più remoto e stentato, eppure, pur non tentando un ritorno impossibile, nella lontananza qualcosa può essere ancora intercettato e reso con il linguaggio che più ci è vicino, la sfida che gli dèi ci pongono è questa in fondo.