lunedì 21 dicembre 2009

In rete il primo numero de La Libellula

Letteratura come politica
Francesco Muzzioli, Letteratura e politica, tra valore simbolico e produttività della contraddizione (pp. 3-9)

Paolo Patuelli, La solitudine del lettore. Alla ricerca della parola perduta (pp. 10-16)
Luca Lenzini, L’appuntamento (pp. 17-24)
Erminia Passannanti, Fortini e la traduzione poetica. Verso l’altro: Da Traducendo Brecht alla raccolta Il ladro di ciliegie ed altre versioni di poesia (pp. 25-34)
Clodina Gubbiotti, La poesia novissima, l’informale e il futurismo: Note per un raffronto (pp. 35-52)
Vincenzo Frungillo, Dal corpo esemplare al corpo nero. Eredità classiche e scadenze mito-biologiche nella poesia di Elio Pagliarani (pp. 53-64)
Vincenzo Bagnoli, Poesia per il presente (pp. 65-67)
Bart Van den Bossche, Epic & Ethics. Il NIE e le responsabilità della letteratura (pp. 68-76)
Alessia Risi, Tu sei lei: una chiamata all’impegno politico (pp. 77-86)
Giuliana Adamo, Letteratura ed impegno: l’eredità sciasciana nella narrativa storica di Maria Attanasio (pp. 87-94)
Barry Ryan, Impegno and intertextuality: Renata Viganò’s Appropriation of Dante in L’Agnese va a morire (pp. 95-105)
Gianluca Cinelli, L’eredità di Nuto Revelli (pp. 106-118)
Barbara Pezzotti, Massimo Carlotto e Marcello Fois: la narrativa d’indagine come discorso politico (pp. 119-130)
Rosetta Giuliani Caponetto, Ennio Flaiano’s story on how ‘To Kill Time’(pp. 131-140)
Maria Rizzarelli, «Scegliendo per sempre la vita, la gioventù» Pasolini, Elsa Morante e il ’68 (pp. 141-153)
Stefania Rimini, “In tempo reale”: la rivoluzione al presente del teatro di Ascanio Celestini (pp. 154-162)
Barnaba Maj, La scrittura come traccia creaturale: Terra matta di Vincenzo Rabito (pp. 163-168)
Salvo Torre, La produzione intellettuale è un’attività scomoda. Culture, subalternità e dominio nella società italiana (pp. 169-173)
La Libellula Poesia:
Alda Merini, Se il sole si rompe, una poesia (già) inedita (p. 175)
Stefania Licciardello, Tre poesie (p. 176)
Vincenzo Frungillo, Finali di Storia sott’acqua e Sonetti da Terre Straniere (pp. 178-184)
Marco Giovenale, Quattro malatini (p. 185-186)

www.lalibellulaitalianistica.it

giovedì 17 dicembre 2009

L'avvocato del diavolo


L’avvocato del diavolo



Tartaglia,
riduce la lingua a pezzi,
la fraziona, non riesce a vederla finita
una frase che sia una
e ricomincia d’accapo
la sintassi della sua genìa
ci riprova tra la gente che s’accalca
melliflua sostanza della Storia,
ci riprova ma tar-ta-glia.
Così anche la piazza
si scompone,
si riduce di scala
e si moltiplica come in quadro
neo cubista, ogni singola faccia
che osserva diventa infinita
diventa piano piano massa,
folla che assiste al comizio
del Signore padrone, un biscione
che s’arrampica sulle guglie cerulee della chiesa
lì dove si celebrava un mese prima
il passaggio terrestre dell’uomo fondatore
dell’Italia risorta dopo la guerra.*


*-in nota, per chi ricorda, nella stessa piazza
si salutava l’uomo che ha nel nome
e nei fatti unito la nostra storia
allo spettacolo infinito d’America
Mike Buongiorno, fondatore del biscione-


avrà pensato tartaglia
di restituire al Signore Padrone
ridotta in scala quella chiesa
nella piazza meneghina
per sentire sulla faccia di gomma
se una sola di quelle visioni è vera.
Tutti avevano lo stesso sorriso
stampato e si presentavano
col nome Silvio.
Avrà pensato tartaglia.
“colpisco quello di centro”
quello dove si concentra il consenso”
poi caricando il tiro
come campione di pallamano
ha lanciato la riproduzione in scala
del duomo di Milano
e buhm…un solo tonfo
ha sfaldato la tela cubista.
Si è rivoltata la folla
sul novello bombarolo
tutta, ma proprio tutta,
compresa la redazione de La Repubblica
che fino alla settimana prima
seguiva il destino dei cervelli in fuga
e questo sotto teca
non l’avevano mica ammesso
al catechismo della chiesa meneghina-
e buhm la faccia si squaglia sotto
il tiro del matto, mio fratello,
avvocato del diavolo,
e buhm si rivede infinite volte
come in quadro cubista
la sua mano che tira, che tira, che tira,
e buhm tartaglia, tartagli la vita…
mia precaria che non conosce
una frase che sia una
e si staglia l’immagine della coda,
di un biscione che arretra
dalle guglie della chiesa
quando stava per lambire
i piedi pudichi della madonnina.
Rivedendo la scena al ralenti
si leggono le labbra del balbuziente
che lancia sulla faccia del Signore
la riproduzione della chiesa,
una sola frase gli è uscita buona
nella sua vita, sparata d’un sol fiato,
senza timore, un vero e proprio urlo:
“ma vaffanculo!”

martedì 17 novembre 2009

Dio ti Allevi


Gli artisti di oggi sono un po' i colletti bianchi della terziario spettacolare. Irrigimentano le masse. In questo ci sono i campioni, coloro che sintetizzano i gusti e fanno da gangli delle emozioni (perentoriamente "viscerali") del pubblico. Sono come gli omologatori di particelle, gli abbassatori di tono della pretese titaniche dei fautori del buon gusto e della forma. In questo c'è il passaggio epocale direi, ma quest'ultima mi sembra parola grossa, tra l'ottocento-novecento e il nuovo millennio. Un campione in questo senso è il giovane pianista Allevi. Dice G. Allevi: "io ho fatto una rivoluzione copernicana, non è il pubblico che va verso l'artista, ma l'artista che va verso il pubblico". (li immaginate Glenn Gould o Michelangeli dire una cosa del genere?) A questa frase mettete il sottofondo della sua risata molliccia e il gioco è fatto. E' stato come scoprire l'antimateria. Il vuoto nell'arte. Del resto lui ha anche studiato filosofia: titolo della tesi: "Il nulla in fisica". Vale più come ricercatore che come musicista.

martedì 3 novembre 2009

Presentazione di "Ogni cinque bracciate" di V.M. Frungillo

Le Lettere
Lunedì 9 novembre 2009, ore 18.00
in occasione del ventennale della caduta del muro di Berlino
alla libreria Feltrinelli di Milano, via Manzoni, 12
verrà presentato il libro
Ogni cinque bracciate
con l’autore Vincenzo Frungillo
saranno presenti
Giancarlo Pontiggia (poeta, saggista e critico letterario)
Alessandra Iadicicco (giornalista e traduttrice dal tedesco)

Il silenzio della rete

Il silenzio è di vario tipo, si potrebbe scrivere una casistica infinita dei silenzi, tentarci così come Goethe ha tentato con i colori, ma non credo che ci si riuscirebbe. Allora si può tentare i indicare i due estremi di una casisitica possibile: da una parte il silenzio religioso e dall'altra quello omertoso.
Si intuisce subito che questi due modi del non detto, o della pausa verbale (qui si complica ancora la faccenda) sono i più diffusi in Italia. In realtà i due modi si confondono in Italia. Di norma il silenzio religioso è quello che permette l'avvento di un qualcosa di non umano, intendendo per umano "che appartiene alla tecnologia umana, alla sua potenza" (compresa la parola); scriveva S. Weil a proposito di questo: «Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol dire esercitare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo». Questo è a mio avviso il silenzio nella sua forma sublime. Poi c'è il silenzio nella sua forma più meschina: l'omertà. Noi del sud la conosciamo bene. Siamo abituati da ragazzi a scontrarci con il non vedere, il non dire. E' la prima scelta tragica che facciamo: dire o non dire, e questo credo sia la causa della nostra natura teoretica (nel bene e nel male). Solo per fare una digressione personale: una volta un parcheggiatore abusivo pretendeva il pizzo (perché di questo si tratta) sul mio parcheggio e gli dissi che non volevo dargli i soldi: lui andò via imprecando:"si sono persi tutti i valori. Anche l'omertà si è persa!"
Comunque l'omertà per fortuna e per sfortuna si è capito non essere una prerogativa del sud. In ogni modo il silenzio omertoso significa non-scelta. E' un silenzio che fa male. Non è privo di direzione quel silenzio: io sto zitto, non prendo parte, lascio che la forza, il potere del sistema, della comunità, che "deve" necessariamente scaricarsi su qualcuno, ricada su una vittimia prescelta. Può essere sia il potere di una organizzazione criminale che il potere dello stato democratico. Dove c'è un consorzio umano, c'è esercizio di potere: dove c'è esercizio di potere c'è una vittima che deve subirlo. La vittima prescelta sarà di norma colui o colei che non rispetta le regole, che non rispetta il patto. Dicevo che in Italia le due forma si confondono, ossia quella religiosa, propria della grazia, e quella omertosa, propria del potere politico, perché la sfera religiosa e la sfera del potere si toccano da sempre. La ricaduta nel costume è che noi italiani non abbiamo una visione limpida né della sfera religiosa né di quella politica; stiamo zitti come i preti quando nel quotidiano ci troviamo di fronte ad una persona o ad un fenomeno eccezionale, che eccede la regola per un qualsiasi motivo. Aspettiamo che sia il gruppo a isolarlo. Anche il suo nome è messo al bando. Non bisogna fare quel nome, bisogna farlo morire di solitudine. Proviamo a rivedere quanto ci ritroviamo in questo meccanismo, quanto ci appartiene!
Taciamo il nome di quella persona perché non si riconosca nella società, perché non viva nel consorzio morale del Super-io, resti nella sfera dell'io per sempre. Così le due possibilità che diamo a quell'individuo sono o l'inaridimento o la riscoperta del vero silenzio, del sublime e assoluto religioso.

mercoledì 14 ottobre 2009

Il fatto quotidiano

Molti sanno, tutti sanno, ciò che diceva Nietzsche: "no i fatti proprio no, non esistono; esistono solo interpretazioni" (cit. a memoria). Di questa splendida frase se ne è persa traccia. La si legge come slogan usurato del pensiero debole anni '80. Oggi tutti tornano alla solidità irremovibile del fatto. Ecco allora che tutti rincorrono la fonte; la verità ultima diventa a portata del quotidiano e della cronaca. Le tv pubbliche e private ci presentano giornalisti che ci dicono la loro, lo stesso succede sulle riviste e sui quotidiani. Tutto è ridotto all'uno contro tutti; io vi dico come stanno le cose. IL fatto ecco il fatto. Adesso vi do la mia sulla storia. Il fatto ecco il fatto, il fatto ecco il fatto e stranamente in men che non si dica, come in una caccia magica, si ripiomba nel dominio dell'interpretazione. Ricordate il mito di Dafne?
Forse è la verità che si cita a sproposito, forse la classe dei gazzettieri dovrebbe (per dirla con Leopardi) smettere di gestire il quotidiano. Si parla di casacche, di guerre tra giornalisti informati sui fatti. Se è vero che il potere per essere tale ha bisogno di cortigiani, è anche vero che il contropotere non è da meno. Se sei poco allineato alla loro interpretazione del fatto allora sei un cortigiano; se non sei allineato con la visione del potere allora sei un dissimulatore. Si è alla guerra civile ....ma così sarebbe poca cosa, si è alla lotta di tutti contro tutti, della necessaria lotta di tutti contro tutti, perché mancando la verità estrema è necessario schierarsi con una parte dei bene informati sui fatti. Tutti allora si corre verso il centro, si abbandona la periferia luminoso di un pensiero altro.
Io sto coi panda. Altro slogan dimenticato.

**
La specie in estinzione è quella di poche parole, quella della parole necessarie. O anche quella delle azioni funzionali al bene. Si ricordava qualche giorno fa il caso della France telecom e dei (credo) più di trenta suicidi. Alcuni impiegati licenziati hanno deciso di farla finita, hanno lasciato una lettera prima del suicidio. Hanno intestato la lettera che chiude un'esistenza (altra parola rimossa dalla cronaca) come se fosse una lettera commerciale: ossia

All'attenzione di .....

Nessuna preghiera: l'attenzione non era rivolta né a dio né a satana.

***
Il giornalista che ha commentato la notizia ha dato la colpa alla cattiva gestione dell'azienda. Il suicidio è colpa dell'azienda. La vita dell'impiegato è finita per colpa dell'azienda. Il giornalista ha dato la sua lettura. E' un fatto.

****
Le sue parole aiuteranno l'impiegato a creare altre parole? Cosa resta? la crisi è solo cosa economica? La parola economico significa amministrazione. La vita è tutta nella sfera dell'amministrazione aziendale. Cosa resta?
Un po' di luce oltre la nostra misera sfera.

sabato 3 ottobre 2009

Crollato il ponte di Messina


Mentre a Messina la terra ancora franava, Silvio Berlusconi era al castello sforzesco di Milano per presiedere l'anteprima della fiction Rai su Barbarossa. Un chiaro omaggio alla Lega Lombarda. Al nord si organizzano revisioni mirate della storia e al sud crollava il palcoscenico della politica. Ancora un volta la realtà del nostro Paese ha superato la fantasia.Una sintesi perfetta della divisione tra nord e sud Italia. Altro che ponte di Messina!

E' così: il cinema si trasforma in fotoromanzo, addomesticando la storia per le signore in pausa-lavoro dal parrucchiere (vedi Il grande sogno, Baaria, Prima linea), con attori bellocci e inespressivi perché coltivati nel sottovuoto dell'assenso, e sceneggiatori funamboli del consenso; mentre la realtà si fa emblema, traccia incisa sulla carne dei feriti.
Dedico queste poche righe , "no ai morti, ma, da ferito a morte, ai feriti di questa orribile strage". Per citare il Carmelo Bene nazionale.

venerdì 25 settembre 2009

Una storia quasi soltanto mia


Nessuno più fa caso alle parole, per un motivo preciso: oggi ce ne sono tante di parole, siamo nel confessionalismo compiuto. Si veda su questo anche la recente polemica con la chiesa e l'intervento di puntuale ritardo dello scrittore veronesi su La Repubblica. Tutti entrano nello spettacolo della atutogratificazione morfemica del sé...allora si prova nostalgia per quel tempo in cui una parola poteva fare politica, azione, forzare l'indifferenza del piccolo borghese, la zona grigia, e arrivare nel segno. Ora la zona grigia ha deciso di partecipare al gioco con una forma di divismo di massa, le parole sono talmente tante che non c'è più bisogno di censurarle, tanto non colgono mai nel segno; proprio perché non c'è nessun corpo da colpire. Si parla di dispersione proprio perché oggi la memoria è ammasso di dati che non hanno spessore temporale, cioé storia. Quindi la nostalgia di quegli anni , i senttanta, tanto di moda!, quando esisteva la parola dura come pietra, il montaggio nel cinema, la scenaggiatutra puntuale della televisione,...(questo nei più giovani). Poi la nostalgia dei settanta come riappropriazione del rimosso; e qui la cosa diventa più interessante.Memoria come rimisurazione del trauma che ci è stato sottratto.
I figli degli operai sono cresciuti davanti allo schermo televisivo sperando di beccare un filino di carne della Heather Parisi nazionale e della forza del padre operaio ne sentivano solo l'eco: il suo sudore, la fatica restava esclusiva della moglie casalinga.ecco oggi si deve puntare a risentire lo schianto.
Così fanno alcuni con libri e visioni. Di recente è successo con la vedova pinelli che, con Scaramucci, ha ripubblicato il libro ormai al macero dall'ottanta Una storia quasi soltanto mia. Edito feltrinelli. Finalmente un controaltare alla santificazine di Calabresi, alle parole menzognere dei tanti che ancora parlano di "morte di pinelli" e non di omicidio. Ancora dopo anni di indagini, la morte di pinelli è una "caduta accidetale" o un "malore attivo"?! Risentiamo queste bestialità in tv, lo leggiamo sui giornali, e in nome della famiglia si dimentica ancora una volta. La famiglia Calabresi ha sofferto e ora viene ricompensata di tanto dolore: ma la vedova Pinelli? Colei che ha risentito dire in giro, quasi da tutti, che l'anarchico è "caduto"? E la forza di chi l'ha spinto? Dove sta la mano? Rimozione delle classi e della lotta. Giusta pietà per i morti, tanti cori per il libro di Mario Calabresi (Spingendo la notte pipù in là) ma non si può dire che Calabresi sia stato innocente per "la morte di Pinelli", "perché in quel momento, mentre l'anarchico "cadeva", non era presente nella stanza del suo ufficio". Tesi accolta da commentatori e giornalisti senza batter ciglio e senza diritto di replica alcuna. Ma anche se fosse vero? Un investigatore è un servitore dello Stato che fa servizio pubblico. Così come un docente è responsabile di altre persone. Se fosse un professore di liceo a uscire per un caffé dalla sua aula e gli cadesse di sotto un alunno? La colpa di chi sarebbe, del bidello? Questa è la responsabilità pubblica made in italy, gettare addosso ai ferrovieri, agli operai tutte le colpe. In pochi verranno a chiederne ragione. Un intellettuale italiano ha detto che la democrazia significa rispondere con i libri ad altri libri (beato illuminista!) io mi limito a gioire per queste pagine di storia.Tra le altre cose Licia Pinelli (vedova di Giuseppe), nel suo libro intervista, racconta della recente visita a Napolitano al Quirinale, dove ha incontrato anche la vedova Calabresi. Straordinaria testimonianza di come i borghesi illuminati vivono nel calore delle loro conquiste, gli operai perdono identità nelle aspirazioni piccolo borghesi dei figli e tutto si risolve in un vuoto d'aria, magniloquenza dello spettacolo:

"Siamo rimasti lì nel salone per qualche momento, un po' di strette di mano. si è avvicinato Napolitano per salutarmi. "sono onorato di conoscerla". Ho conosciuto[...] Mario Clabresi che mi ha dato l'impressione di una persona buona, ho avuto tanti di quei baci. Tutta un'atmosfera cordiale, rispettosa, ma non ossequiosa. Un'atmosfera che mi dava la sensazione, lì dentro, di un Stato di diritto, di come potrebbe essere uno Stato di diritto

E quando sei uscita?

Un'altra Italia. si respira un'atra aria fuori, diversa, molto peggiore.Un'Italia di nessun diritto.

mercoledì 16 settembre 2009

In memoria di Simone Cattaneo (1974-2009)



Da ieri circola in rete la notizia della morte improvvissa di Simone Cattaneo, giovane poeta, redattore della rivista Atelier. La sua sembra essere stata una scelta tragica e non morte naturale o accidentale. Lasciando da parte ogni commento, ho qui copiato un paio di suoi testi.




La madre di un mio compagno delle scuole medie
mi ha bloccato in una strada del vecchio quartiere
dicendomi che suo figlio era morto.
Non si è sbilanciata più di tanto e mi ha invitato al funerale.
Mi è parso buona educazione accettare.
Una settimana dopo mi ha fermato sotto casa e con aria decisa
mi ha confidato che calzo lo stesso numero di piede del suo povero figlio,
così mi ha regalato due paia di scarpe e un giubbotto giallo.
Qualche sera fa sono finito in un bar di Milano e
ho abbordato una ragazza sudamericana molto sensibile
al mio nuovo giubbotto canarino. Ho stretto gli occhi
e le ho sussurrato che per i particolari non bado mai a spese.


Stanotte di fronte al televisore spento
mi sono messo a ballare con una canna da pesca
un lento tragico e romantico, ho spostato i mobili
del soggiorno e al centro del pavimento ho ammucchiato
quotidiani vecchi, cartoni di latte e qualche
fazzoletto sporco. Poi ho dato fuoco a tutto
e mi sembrava di partecipare a uno di quei veri balli
studenteschi pieni di gioia e di speranza nella vodka
con un chiasso infernale che mi riempiva le orecchie
con il rumore del mare.
Spento il fuoco, qualche ombra fiera e dura
incisa sulle mura, la canna da pesca incrinata
sono rimasto a suonare su una tastiera sgraziata
chissà poi cosa
aspettando di riprendere fiato
e ho pensato di uscire all’aria aperta ma chiudendo
gli occhi il rosso del fuoco divideva ancora
il mio pavimento e non colava a picco,
rimaneva fisso lì a marchiare il territorio
in attesa di tutta la mia miseria.



Simone Cattaneo era nato nel 1974. Sue poesie sono state pubblicate su “Atelier”, “La clessidra”, “Hebenon”, “ Poesia”, “Letture”, “Graphie”, “Tratti”, “Clandestino”, ”La Mosca di Milano”, “Il primo amore” e “Ore piccole”. E’stato incluso nel testo curato da Giuliano Ladolfi, L’opera comune. Antologia di poeti nati negli anni settanta ( Atelier, 1999 ). Suoi testi, con una presentazione di Roberto Roversi, sono presenti nell’antologia Dieci poeti italiani ( Pendragon, 2002 ), a cura di Maurizio Clementi. E’ stato incluso in “Lavori di scavo.Antologia dei poeti nati negli anni ‘70” (Antologia web di Railibro 2004) e in “100 Poesie di odio e di invettiva” a cura di Antonio Veneziani ( Coniglio Editore, 2007). Inoltre è presente nell’antologia curata da Davide Brullo La stella polare. Poeti italiani dei tempi “ultimi” ( Città Nuova, Roma ). Ha pubblicato due libri: Nome e soprannome ( Edizioni Atelier, 2001 ) e Made in Italy ( Atelier, 2008 ).

lunedì 4 maggio 2009

Memorie di un rappresentante di cultura italiana


Lavoro all'estero, faccio lo stesso lavoro del figlio di Provenzano, sono un vero esemplare d'italiano.Il picciotto quando il padre fu catturato, -nella baita in collina dove la giornalista La Rosa fece "servizio speciale" in prima serata- disse io non rinnego i valori di mio padre.Sono lo stesso che osserva il lutto nazionale per la morte di mario merola, il cantante popolare; tipo alighiero noschese mi trucco per bene per apparire al console con un ritardo mentale e ci riesco, balbettando le ragioni dei minori e dei diversi, cerco miseria ad ogni costo come il bene supremo,ahi me, trovo risposte ciniche e severe come il diritto alla pensione, la pancia bella grossa e pacche sul sedere, e poi mi piscio addosso come un qualsiasi ubriacone se il superiore mi concede le feste a fine mese, urlo di gioia se il Milan vince la finale “Galliani Galliani bandiera nazionale!”
e allora basta fare i nomi di quelli grossi che tanto si sputtanano da soli per vincere milioni sul mercato dei mediocri, facciamo i nomi piccoli, quelli dei tanti che cercano la moglie e l'amante; cerchiamo di capire se il mondo che seguono esiste davvero o è una luce di supernova, la stella morta dei cinquanta e dei sessanta quando famiglia-stato-chiesa erano i cieli fissi dell’alighieri, e noschese imperversava con una maschera italiana, ad ogni canale come megera, sibilla cumana rideva nascondendo dietro la schiena una rivoltella. Un suicidio è un impegno che si prende con se stesso e con il proprio tempo…. se il nostro Paese capisse almeno questo.
(foto a sinistra Alighiero Noschese nella parte de Il Padrino)

lunedì 27 aprile 2009

Pagliarani e la dispersione radicale


Scriveva il giovane Bachtin in L’autore e l’eroe: «Le tre sfere della cultura umana –scienza, arte e vita- trovano unità soltanto nella persona che le rende partecipi della propria unità. […] Quando l’uomo è nell’arte, egli è fuori della vita, e viceversa. Tra esse non c’è unità e reciproca compenetrazione interiore nell’unità della persona. Che cosa allora garantisce il legame interiore degli elementi della persona? Soltanto l’unità della responsabilità.» Nessuna citazione è ai miei occhi più calzante per descrivere l’esperienza poetica di Elio Pagliarani. Rileggendo la sua opera ho notato che la responsabilità verso il proprio tempo è la costante del suo impegno letterario. C’è da questo punto di vista una precisa dichiarazione di poetica nel famoso finale de La ragazza Carla. Nella prima strofa del coro si legge: Quanto di morte noi circonda e quanto/ tocca mutarne in vita per esistere/ è diamante sul vetro, svolgimento/ concreto d’uomo in storia che resiste/ solo vivo scarnendosi al suo tempo/ quando ristagna il ritmo e quando investe/ lo stesso corpo umano a mutamento.
Tenendo presente questi sette versi, mi piacerebbe sottolineare quello che per me è uno snodo importante dell’opera del poeta emiliano. Dopo il finale corifeo de La ragazza Carla, avviene una mutazione radicale nello sguardo di Pagliarani. «Le cose stanno cambiando, sono cambiate. Non nel senso generico che si dà a questa frase. Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò più sentirle. Ho paura che potrò solo usarle» dice il protagonista del romanzo Atlante Occidentale di Del Giudice, parlando con un giovane fisico impegnato in esperimenti sull’accelerazione della materia. Ed è come se Pagliarani avesse avvertito la stessa mutazione epocale dopo il ’62, e avesse deciso di non sottrarsi alla sfida.
Tutta l’epica didascalica successiva al poema sull’impiegata dell’Olivetti è un’interrogazione sofferta sul perché quest’eroina non riesca a diventare ideale, non riesca a trattenere, a conservare intorno a sé lo spazio della rappresentazione (Esercizi platonici, del 1985, mi sembra essere ancora un’interrogazione teoretica su questo punto). Il coro finale del poema del ’62, quindi, si dilata all’infinito e le forze della Storia diventano il centro stesso della scena, diventano esse stesse lo spazio e il protagonista della rappresentazione. Il contesto storico-sociale invade il corpo del personaggio Carla e lo smembra. Il finale de La ragazza Carla, da questo punto di vista, ha la stessa funzione che aveva il coro della tragedia greca: irrompe sulla scena, toglie la voce ai personaggi e far parlare l’oggettività della Storia.
Da qui ha inizio l’avventura testuale dell’epica didascalica di Lezioni di Fisica e Fecaloro; testo innovativo e profetico che fa del corpo nero e della legge sull’indeterminazione in fisica (vedi IV lettera o egloga di Lezioni di fisica) la metafora madre di quegli anni e degli anni a venire. Adesso è l’indeterminazione il paradigma sovrano così come il corpo nero rappresenta l’impossibilità di raffigurare il personaggio simbolo della nuova era. Restando all’interno di un linguaggio scientifico si potrebbe dire allora che se un corpo è “il risultato di un equilibrio tra la forza di conservazione e quella di dispersione” (così Kant riprendendo Leibniz in commento alla fisica di Newton), i versi di Pagliarani dicono il passaggio al paradigma della pura dispersione. In questo scenario il poeta non può che accettare l’”indistinto”, ma non si abbandona ad esso con nichilistica rassegnazione.
Il narratore in versi diventa la cassa di risonanza delle mutazioni epocali che coincidono con le rivoluzioni scientifico-tecnologiche del suo tempo. Se la tradizione non è più l’insieme di codici linguistici che garantiscono comunità e centralità all’uomo, se lo stesso “io narrante” vacilla, in quanto strumento di comprensione del mondo, di certo non decade l’essenza storica del narratore-corpo, la traumatica somatizzazione del suo tempo. Di fronte alla scomparsa del corpo ideale e del suo spazio il poeta oppone la forza della resistenza. Adesso non c’è più un personaggio che rappresenti un’epoca, adesso ci sono le sole forze che si combattano avendo perso l’equilibrio iniziale (è Deleuze che dirà che un “corpo è sempre il risultato di uno scontro di forze”). Questo, mi sembra, può voler intendere il poeta quando nella V egloga di Lezioni di fisica parla della “grammatica epica d’Achille”: scarnificare il racconto eroico per rimettere in campo il thymos, il respiro, lo slancio che animava i personaggi dei poemi antichi; anche se adesso il nemico da combattere è l’”indistinto”. In questo scontro il solo nucleo che si può rintracciare è la “retorica dei recitativi”, il punto d’impatto tra il fuori e il dentro, il fiato del poeta che tiene insieme il testo e lo spazio.

(intervento apparso leggermente modificato sul numero monografico L'immaginazione, Manni editore)

sabato 11 aprile 2009

Pubblicato poema di Frungillo sulla DDR


Cosa si può immaginare di più inattuale, oggi, di un poema epico in ottave? Basterebbe questo a indicare in Ogni cinque bracciate, work in progress iniziato nel 2002 e concluso nel 2007, la più rara delle aves in un panorama poetico, come il nostro degli ultimi decenni, contrassegnato per lo più da gabbie strenuamente chiuse, finissimi lavori di cesello, fenomenologie microscopiche. Eppure nella generazione di Frungillo – magari guardando a esempi ormai remoti come quelli del Pagliarani della Ragazza Carla e della Ballata di Rudi – significativamente si assiste a un rinnovato anelito a raccontare storie, anche in poesia, che una buona volta superino lo spazio ristretto della soffocante «cameretta» lirica.
Le buone intenzioni, naturalmente, non bastano. Il colpo di genio di Frungillo è stato quello di cogliere – nella vicenda delle nuotatrici della Repubblica Democratica Tedesca, amazzoni per l’appunto «mitiche» negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – la chiave d’accesso a una dimensione, oltre che epica, allegorica e mitopoietica. Come dice un indubbio ispiratore di questo immaginario quale Milo De Angelis, si realizza in Ogni cinque bracciate il miracolo di un «sempre» (il fascinum della giovinezza, dell’agone, dell’eterno splendore della carne) che si sposa con una dimensione «storica»: precisa quanto dolorosa. Quello di Renate, Karla, Lampe e Ute – corpo dopato prima glorioso poi in macerie – è il corpo dell’utopia socialista e, più in generale, di una modernità che ha preteso di spingersi, in tutti i sensi, oltre i propri limiti.
Frungillo s’è imbattuto in questa storia studiando filosofia in Germania. Più avanti ne ha trovato inquietanti addentellati documentari: le fotografie in appendice, di frammentaria qualità, sono state infatti da lui reperite negli archivi della Stasi, la polizia segreta della DDR: a dimostrare come le gloriose nuotatrici fossero, durante i loro interminabili allenamenti, occhiutamente controllate. Proprio come nelle Vite degli altri, il fortunato film di Florian Henckel von Donnersmarck, c’è in questa storia anche un «agente doppio»: l’inquietante dottor Starkino che canta le magnifiche sorti e progressive dei corpi da record. La sua retorica ci turba perché, pur riconoscendola ripugnante, non possiamo non risentirvi gli accenti irresistibili degli epinici antichi, delle odi pindariche. L’inganno della parola e quello della storia sono lo stesso inganno.

Andrea Cortellessa
(quarta di copertina di Ogni cinque bracciate, Le Lettere, collana Fuori Formato, prefazione Elio Pagliarani, postfazione Milo De Angelis)

giovedì 12 febbraio 2009

Una poesia civile

Liberamente tratto da “Uomo del mio tempo” di Salvatore Quasimodo

Sei ancora quello dell’anatema e della verità
uomo del mio tempo. Eri nei tribunali dell’inquisizione
alle forche, alle ruote di tortura , ai roghi.
T'ho visto: eri tu, con la tua religione vera ,unica
senza amore , senza pietà , persuaso allo sterminio.
Forte dell’alleanza con i forti,brandisci la fede
come una spada ,travolgi ed umili l’amore di un padre,
vuoi zittire la voce degli altri ,come sempre ,
come hai fatto con Galileo, Giordano Bruno
come con Dolcino e i suoi apostolici ,con le streghe
e gli omosessuali, gli indios, i marrani
tutti evangelicamente inquisiti, imprigionati o messi al rogo.
Oggi la storia si ripete senza sangue , ma si ripete
e volano le ingiurie e le grida di assassinio ,di delitto.
Il furore si fa legge e pretendi l’uso del mio corpo
quand’esso fosse un involucro vuoto e senza alcuna luce
Ma io dico:
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate questi padri , essi sono avvelenati.
Essi sono avvelenati da ipocrisia, ingordigia di potere, volgarità
Tutte figlie dell’ignoranza , voi siete la speranza ,voi siete l’Umanità.


Giuseppe Sambri

sabato 17 gennaio 2009

Collana A4


mercoledì 21 gennaio 2009 ore 18,00
IL LABORATORIO / le edizioni
presenta la collana di Libri d'Arte
"Aquattro"
presso l'Instituto Cervantes, in via Nazario Sauro, 21, Napoli

Interverranno Stella Cervasio, Mariano Bàino, Francesco Filia,
Gabriele Frasca.
Verranno esposti i lavori originali di Errico Ruotolo, Pasquale
Coppola, Daniela Pergreffi
e inoltre le Incisioni contenute nelle prime 50 copie dei volumi.

La mostra resterà aperta al pubblico fino al 10 febbraio 2009.



per info:
Instituto Cervantes Napoli +39 081 19563311

Per i giornalisti che volessero partecipare all’evento:
richiedere foto alta risoluzione per la stampa a
comunicazione@larcaelarco.com

martedì 13 gennaio 2009

Memorie di un magliaro


"Pronto, Gino? Sono Gino." "Chi Gino?" "Tuo cugino. Ci sono novità"............. Anche il padre di Gino, Zio Giggino faceva il magliaro. Adesso ha una pizzeria, nella fredda Germania. Suo figlio Gino, mio cugino, è tornato a Napoli per fare carriera. Così mi telefona e mi fa "Parti con me?" Io gli chiedo "E dove si va?" Lui dice "Berlino. In periferia però..." In quei piccoli paesi sembrava d'essere a cinecittà. Le vie erano deserte e silenziose come le chiese. Fermiamo un signore grande e grosso. Diciamo quanto concordato, parla Gino con il suo tedesco da immigrato "Ersculdigung...bitte...wollen sie vedere la merce che si vende. sa, abbiamo avuto un problema. ci aspettavano alla fiera. poi invece, sa..., l'aereo. il tempo,... un contrattempo". lui compra tutto una giacca Armani, fatta in plastica e una maglietta usa e getta, da indossare in tutta fretta. Poi c'invita ad entrare in una villetta. C'è la moglie grassa e bianca come una balena. Fiuta l'affare..ridono e parlano insieme . "Nur 100 euro, ist gut, alles klar..." mio cugino non aspetta. Svuota il pacco di roba, imitazione perfetta, acquistata al capannone della famiglia Nuvoletta. Improvvisamente si ferma "Haben Sie Tochter?" ("ma che fa questo pensa a magna?") "Nein, wir sind alein". Mi strizza l'occhio. Afferra il polso del vecchio "tu fatti la vecchia", li leghiamo alla sedia. "tu aspetta io vado di là". Svuota la cassetta di sicurezza. Io guardo la signora. Penso all'italia, al diploma in meccanica, a mia madre, al suo lavoro da sarta, piccoli aggiusti, alla canna a fine giornata, all'accrocchio in piazza, alla noia infinita, al risveglio la mattina, al mio volto sempre più largo, al mio corpo sempre più grosso, al fallimento percepito, mentre mi fisso allo specchio, al sacrificio, alla sfiga, alla trasferta in terra straniera, ai terroni, ai vecchi lavori, alle risorse fantasiose, al popolo mansueto, pigro ma buono, al popolo dal cuore d'oro, al popolo più furbo, a mio cugino, il figlio di zio Gino, che spacca tutto.