lunedì 20 ottobre 2008

Il corpo delle leggi

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La violenza gratuita nelle democrazie moderne non nasce dall’evasione dalla legge ma dalla rimozione della violenza insita nella legge stessa.

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A Mogadiscio soldati dell’esercito italiano torturarono un ribelle applicandogli elettrodi ai testicoli, di recente gli americani hanno fatto lo stesso con gli iraqeni; entrambi, italiani e americani, furono accusati grazie a foto scattate da commilitoni compiacenti. Di fronte alle accuse dei rispettivi tribunali le risposte furono identiche: “non era vero niente, era solo finzione. Si trattava di una messa in scena teatrale”. Quasi fosse stato una pierce di Sarah Kane. Chi osservava quelle foto sulla prima pagina del giornale non poteva non sentirsi coinvolto in un’iperbole semantica in cui il corpo del reato era misteriosamente sparito.


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I patiboli nella storia sono stati funzionali al ricordo collettivo del corpo-delle-leggi. Ma già in quelle occasioni si avviava la corruzione: lo spettacolo della rimozioni, la commedia umana (nel senso aristotelico dell’espressione). La parola che scende a fondo deve ricordare a sé stessi il nulla, il sangue, il patto originario: ognuno per sé deve scandagliare le proprie colpe. “Ciò che può essere pronunciato: fine. Linguaggio che va in frantumi, resti alti e bassi di muro, cumuli di frane, avanzi murari di ciò che è crollato, di formule, parole d’ordine, definizioni […] Qui è il confine. Qui fuori è la notte del mondo, una sola cecità” (Birgitta Trotzig). La parola rispetta la legge. Ogni parola giusta è una parola violenta: agisce e dice perché la violenza sul nulla sia anche ricordo del nulla.

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Quand’è che muore?!
-Salvaci Signore!-
Quand’è che muore?!
La senti anche tu la commozione.

“I giornalisti come i politici pensano sempre di sapere tutto”, è scappato da dire in un flatus demoniaco all’esperto cronista dopo aver intervistato Saviano. Quella confessione d’immodestia ha fatto vibrare la tela perché la si scorgesse, si vedesse il ragno che nel tessere inventa la preda.

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